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Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores rifugge qualsiasi velleitaria “autorialità” per porsi come opera popolare, con una schiettezza sentimentale che ha irritato parte della critica; un film che vuole appartenere al pubblico, rendendolo partecipe di un viaggio emotivo, affettivo e di formazione, dalla forma eterogenea e sinceramente ingenuo. L’assenza di ipocrisia, di volontà di manipolazione dello spettatore, mi sembra il dato più evidente di un film che ripone la più grande fede nei propri personaggi e conferisce loro una verità palpabile. E credo che questa ricerca di vero palpitante, questo desiderio di creare un rapporto tra l’esperienza di chi guarda e l’avventura del vivere messa in scena sullo schermo sia un dono che Salvatores, pur con i mezzi di un cinema imperfetto, abbia cercato in ogni modo di consegnarci.
Un film, Tutto il mio folle amore, linguisticamente ed esteticamente ancorato agli anni ’90 – la fuga, lo spazio concepito come terra sconosciuta in cui ricollocare la propria identità, lo sguardo su un mondo “altro”, il folclore – ma condotto con un entusiasmo giovanile che lo rende, malgrado la nostalgia dei codici, “nuovo”. Un cinema che ha la freschezza dei primi amori, dei sentimenti vissuti con un idealismo adolescente.
E in un panorama italiano che spesso offre stanchezza, sguardi interiori consumati dall’analisi, immagini dense di intenzioni o ideologie e un peso didattico che trascina il pubblico in un buio opprimente e anticinematografico, Tutto il mio folle amore trascorre in un volo sorridente: è cinema-movimento, quasi senza peso. Non pretende di impartire lezioni, non ci dà la parola stanca ma viva nel suo farsi: i dialoghi (di Umberto Contarello e Sara Mosetti), pronunciati da personaggi che immediatamente ci appaiono familiari, sono brevi, naturali, scorrono con la dolcezza e verità di un intimo colloquio. Come spettatori, ci sentiamo accanto ai protagonisti: siamo presenti nella camera da letto, nelle balere balcaniche, negli scabri panorami della Croazia.
In un certo senso Salvatores insegue il sogno del cinema indipendente, che è quello della realtà, di catturare una porzione di esistenza non artefatta. E difatti è percepibile l’improvvisazione, la creazione di scene che hanno una qualità estemporanea, non prevista.
Pochi attori, tutti al loro meglio: Claudio Santamaria incarna esattamente l’idea di cinema di Salvatores, con un corpo che è il sangue, l’errore, la passione, l’amore; Giulio Pranno irrompe meravigliosamente come corpo-estraneo, incidente che rovescia la vita, esplosione di tutte le forze congiunte del caos e della purezza; Valeria Golino si mette a nudo con una fragilità, una paura sofferente, in cui riveniamo la malinconia di illusioni perdute, nel durissimo scontro con la necessità; e infine Diego Abantantuono, personaggio pieno e multidimensionale, di una generosità rara. Alla sua saggezza gentile, al suo humor asciutto e colmo di sensibilità, Salvatores affida il ricongiungimento delle anime irrequiete del film. Tutto il mio folle amore è cinema perduto, amato e ritrovato.
Ciao Marcella, nella tua sempre attenta recensione, trovo giusto quando scrivi che come spettatori ci ritroviamo accanto ai protagonisti, è stato facile immedesimarsi nei personaggi vivendo tutto quello che loro hanno vissuto. Gli attori, sono stati una piacevole scoperta: Santamaria e Pranno. Valeria Golino già la conoscevo in Rain Man, Diego Abatantuono mi ha stupito positivamente, non pensavo che riuscisse ad affrontare in modo così serio un argomento così importante. L’ho sempre visto in film più scadenti. Il film mi è piaciuto tantissimo e mi ha commosso. A te?
Capisco il suo punto di vista Marcella, e lo rispetto. L’illiminazione attenta, partecipata, quasi affettuosa che dà al film è ineccepibile, nulla trascurando come nella composizione di un mosaico per ridare al lettore l’emozione intima che coglie lo spettatore. Personalmente (non ho ancora visto questo film) vedo in Salvatore una “fragilità ” generale superiore alle sue capacità di gestire la stessa e trarne racconto, che sicuramente è vivo (lo è sempre stato, fin dai primo film) e palpabile ma non è lo sguardo (puro/ingenuo/sveglio/feribile) del ragazzo dai quattrocento colpi quanto un istintivo timore nel guardare oltre, un volersi fermare al “buono” e non disvelare insieme a questo il suo antagonista. Ovviamente sono in errore per la mia incapacità di accettare anche ciò che non è animosità , retaggio di una stagione troppo politica. Spero che il film abbia ascolto attento insieme al Martin Eden. Aldilà , sono queste le cose di cui chi fa cinema in questo paese ha bisogno per allontanarsi da stracult. Ho ecceduto, chiedo venia.
Il 03/11/19, Frammenti di cinema – di Marcella
Ti consiglio comunque di vederlo. Ci sono le fragilità, ma c’è anche la vita
Giulio Pranno irrompe meravigliosamente come corpo-estraneo