SUSPIRIA di Luca Guadagnino

Suspiriae
* 1/2
Non ci soffermeremo, come già hanno fatto i numerosi estimatori di questo nuovo Suspiria, sulla germogliazione di riflessioni storico-politiche che si inerpicano sulla trama principale (come un organismo parassita, privandolo della sua forza); nè sull’amore manifestato dal regista per il Nuovo Cinema Tedesco, cui si ispira sia nell’organizzazione della struttura del film (diviso in capitoli, sul modello di Germania in Autunno, 1978) che nella freddezza fassbinderiana degli interni.

Questi elementi, che gonfiano la durata del film e diluiscono la concentrata concisione della sceneggiatura originale, a nostro parere costituiscono un dato deteriore: sia a livello etico nei confronti del genere horror, in quanto Guadagnino sembra avvertire la necessità di giustificarlo con ambizioni più nobili e profonde (dalla Storia alla psicoanalisi); sia estetico, distruggendo la sinfonia coloristica della prima opera – note monocrome in cui si condensava un’emozione, una condizione dello spirito – a favore di una palette di grigio esistenzialismo in cui avvolgere una selva di sottotrame documentarie: terrorismi, suicidi, fantasmi del nazismo e militanze politiche.

Guadagnino trasforma l’horror perfetto e ipnotico argentiano, in cui storia e racconto concorrevano a generare una struttura inarrestabile, sintetica ed iniziatica, in un polpettone storico/freudiano di stampo novecentesco, capace di disperdersi in mille rivoli narrativi, intrapresi e mai approfonditi; è un Suspiria di fallita ambizione proustiana, in cui ogni capitolo vive – o meglio, muore – di incisi, epifanici ricordi, illuminazioni del pensiero, costanti interrogativi: tradotti in un linguaggio cinematografico disorganico (montaggio “violento” di interni ed esterni, campi lunghi interrotti bruscamente da dettagli di visi, impiego contrappuntistico di suono e immagine).

La vera tragedia di questo Suspiria è la totale inadeguatezza di Guadagnino nei confronti dell’horror: incapace di decifrarne i codici essenziali, il regista è impreparato nell’elaborazione di meccanismi perturbanti: accelera sequenze fino a climax che non hanno luogo; usa lo zoom gratuitamente, concentra l’attenzione dello spettatore su dettagli poi lasciati cadere nel vuoto; si serve del vecchio espediente degli specchi per darci indizi di doppiezza e condurci sulla strada di un universo rovesciato; ma al cinema di Guadagnino manca del tutto la qualità orrorifica – il voyeurismo, la perversione dello sguardo, il gusto di sovrapporre i nostri occhi all’occhio del carnefice. Manca la capacità di una elaborazione temporale dell’horror, che nel suo Suspiria si manifesta in una struttura piena di falle temporali in cui si inserisce la noia, la distrazione.

Purtroppo il cinema di Guadagnino vuol far pensare, non vuole far godere. Il sospetto è che al regista manchi completamente il gusto di fare horror, il “piacere di uccidere una bella donna” proprio di Argento. Ed è sul femminile che si registra il più grande fallimento: le donne di Suspiria sono completamente opache; non esistono se non in quanto involucro atto a convogliare il narcisismo del regista. Al contrario, il Suspiria argentiano trionfava come messa in scena (oscura, fitta di simboli e suggestioni arcaiche) di un universo femminile e matriarcale: l’opera di un uomo che ama le donne, fino a percepirne il respiro sovrannaturale.

Non basta qualche patinata sequenza onirica, nè immagini di puro disgusto anatomico per creare un horror. Le interpreti si muovono smarrite, senza sapere quel che fanno; ma nemmeno Guadagnino lo sa, e punta ad un grottesco autoreferenziale. Suspiria affastella visioni, accumula montaggi, dispensa grandangoli, non ci risparmia una pluralità di concettualismi. Ma manca la pulsione, manca il cineasta come assassino, capace di renderci complici/colpevoli del suo immaginario.

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