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Quello di Agnès Varda e JR è un lavoro apparentemente semplice, ma che in realtà rinnova le possibilità, reinventa il tempo e lo spazio. Lo capiamo da subito, con un incipit che mette in scena il caso: “Non ci siamo conosciuti per strada. Non ci siamo conosciuti alla fermata dell’autobus”. Le immagini ci mostrano uno sfioramento, un incontro mancato per pochi secondi, a suggerire come le vite differenti dei due artisti si muovessero a stretto contatto, su due binari adiacenti per affinità elettiva. “Sono stato io a cercare lei”. Un incontro, quello tra Agnès Varda e JR, tra due sensibilità capaci di comunicare con estrema naturalezza, e coronato da una visione del mondo trascendente, altra rispetto al senso comune: follia, umanesimo, sentimento soggettivo del tempo e dello spazio.
Guidati da questa comune attrazione nei confronti delle cose e degli esseri umani, la Varda e JR ci spalancano infinite possibilità: il dono più grande che l’arte possa concederci. Là dove uno sguardo spento dall’abitudine vede una vecchia casa di un villaggio rurale, i due artisti vedono il regno di un’anima resistente al tempo, cui dedicare un gigantesco ritratto che ne esalti il volto e la sua storia; una semplice cameriera diviene una “ragazza col parasole” nella tradizione delle fanciulle dipinte da Monet, stagliata su una parete a ricordare, con ariosa leggerezza, il respiro storico e artistico francese.
Agnès Varda e JR percorrono la Francia, attraversano paesi, campagne, porti, alla ricerca della vita segreta e più semplice; il film diventa una poesia che ne celebra la grandezza, reinventa un’epica di esistenze, memorie, eroismi quotidiani. Un contadino viene magnificato come immenso “re” della propria terra; gli operai di una fabbrica tendono, idealmente, l’uno verso l’altro in una gioiosa fotografia-canto corale. Varda e JR trasformano serbatoi d’acqua in giganteschi acquari, mutano un vecchio convoglio in un vero “train de vie” su cui appaiono occhi, piedi, tracce di una vita in movimento attraverso dimensioni infinite. Il loro lavoro di artisti è quello, mediante l’immagine fotografica e l’immagine-cinema, di spalancare l’accesso all’impossibile: ecco allora che i ricordi della regista si materializzano su una spiaggia, per essere poi sciacquati via dalle maree; o ancora, celebrazioni di figure femminili immaginate come creature mitologiche, “donne uccello” in volo.
Agnes Varda e JR riscrivono la realtà con i propri occhi: le lettere dell’alfabeto perdono nitidezza, ma la Varda dimostra come una realtà fuori fuoco possa essere ricomposta poeticamente. Eccezionale montatrice, la regista mette insieme i pezzi del suo viaggio on the road trasformando i “versi liberi” che lo compongono in una struttura densa di rime interne, metonimie, sinestesie. In Visages Villages il tempo ritorna, la sua recherche fa affiorare il passato dal presente, e il viso di JR si sovrappone a quello, sfuggente, di Jean-Luc Godard: un volto sfocato, un volto che si sottrae alla visione. E noi ci commuoviamo assieme ad Agnès, al suo amore per le cose e per gli uomini, alle sue lacrime, al suo incredibile senso d’avventura che tramuta il quotidiano in lirica.