BORG MCENROE di Janus Metz Pedersen

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“Ogni partita di tennis è una vita in miniatura”. E’ contraddittorio che il film Borg McEnroe, dopo un simile frase d’apertura (tratta da “Open”, l’autobiografia di Agassi), scelga di appiattirsi in una convenzionale esposizione di fatti, senza sporcarsi troppo con le emozioni, il pathos, la brutalità del confronto umano e sportivo.
Björn Borg, su cui il regista Pedersen concentra la propria attenzione, soffermandosi in particolare sul rapporto con il suo mentore/allenatore Lennart Bergelin (uno stanco Stellan Skarsgård) ha il volto dell’attore Sverrir Gudnason: il quale, benchè approdi ad una mimesi fisica davvero impressionante, gioca la sua perfomance attoriale su un piano del tutto illustrativo. A Gudnason interessa riprodurre il Borg/icona, la sua presenza corporea, i capelli, lo scatto muscolare, l’estetica riconoscibile: ma mai si azzarda a dare al suo personaggio una profondità umana e psicologica, o un indizio sensibile. Il Borg di Gudnason non sembra mai pensare davvero: il suo viso è bloccato in una serietà inespressiva e impenetrabile, priva di carisma e luce interiore. Lo spettatore perde interesse nei suoi confronti; e non aiutano le scelte narrative del regista Pedersen, che cerca di risolvere non solo gli snodi drammatici, ma anche i conflitti introspettivi in forma dialogica.

Tutto il film si gioca prevalentemente in interni: Borg si confronta con la fidanzata Mariana Simionescu e soprattutto con Bergelin in interminabili lezioni morali e sportive espresse tramite il dialogo. Pedersen si impigrisce nella parola, e trascura il potere delle immagini. Fiacco, privo di identità, il film manca di un reale conflitto e si trascina in una successione di primi piani e in un gioco di messe a fuoco che funge da metafora dello scollamento tra il personaggio ed il contesto sportivo, giornalistico, ma anche familiare che lo circonda.

Di gran lunga più breve lo spazio che Pedersen dedica a McEnroe; il montaggio lo taglia, lo riduce ad uno schematico controcanto concentrato in poche scene. McEnroe è il proverbiale “superbrat” che beve, insulta e si consuma in notti brave: solo che qui abbiamo Shia LaBoeuf, ed è incredibile ciò che riesce a fare col poco materiale scadente a disposizione. Ogni sua apparizione irrora – finalmente – lo schermo di lacrime e sangue: LaBoeuf è capace, con un movimento d’occhi, o un sussulto rapido e nervoso, di imprimere un fortissimo afflato drammatico al suo personaggio. Il suo McEnroe è il centro nervoso ed emozionale del film, una forza centripeta contrapposta ad un Borg che sospinge il film ad un margine, un limbo impersonale in cui la mediocrità del regista sembra, purtroppo, trovarsi a proprio agio.

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