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Polytechnique (2009) è la drammatizzazione dei tragici eventi del 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montréal, quando quattordici studentesse furono uccise per mano di un giovane folle e misogino. Il film è uno studio sulla natura umana che ricorda, in parte, L’Haneke di Benny’s Video, ma privo della componente di black humour: Haneke inquadra il male da entomologo, senza porre distanze, affascinato di fronte alle peculiarità della nostra specie; Villeneuve invece si concentra sullo spazio e sulla sua divisione, materiale ed anche etica. In Polytechnique, il male è “altro”, entità compresente e separata, esplosione irrazionale pronta a liberare il caos in uno spazio razionale e quotidiano.
Polytechnique si serve della voce fuori campo per raccontarci i pensieri dell’assassino; il film tenta di estrarre una tesi, far rientrare l’orrore in un possibile ordine delle cose indagandone le cause: l’esistenza delusionale del giovane, la sua apatia, l’odio per l’emancipazione “privilegiata” femminile come causa della propria sofferenza. Al senso di minaccia incombente egli oppone la sua perversa logica: i proiettili, l’eliminazione fisica.
Ma non è questa “filosofia dell’orrore” la parte migliore del film: Polytechnique è insufficiente sul piano speculativo, ma radicale sul piano puramente visivo. Le sue immagini, forse oltre la stessa volontà dell’autore, prendono il sopravvento sul “discorso” e si fanno grandissimo cinema: rovesciamenti prospettici, alienate steady-cam, spazi geometrici paranoicamente deformati dall’innesto di una presenza estranea. Il familiare assume la forma della vertigine, il male è obliquo, trasversale, profondo.
La scena, emotivamente devastante, della sparatoria è quella in cui Villeneuve divide, formalmente, lo spazio del carnefice e lo spazio delle vittime. I sopravvissuti osservano l’assassino da sotto un tavolo, celati al suo mirino; lo guardano attraverso uno sguardo tangente e contingente, acquattati al pavimento, mentre lui è eretto, dominatore. Il fucile è un’estensione del suo occhio e del suo potere; salvarsi vuol dire non trovarsi all’interno del suo spazio.
Villeneuve muove la macchina da presa in una “fuga” fluida: corre dai soffitti ai corridoi, sfiora terra, per poi bloccarsi su un corpo inerte: si ferma sulla morte. La scelta del bianco e nero sottrae emozioni sensoriali, ci evita il colore e l’odore del sangue.
Villeneuve, uomo di cinema, riprende derive dell’essere con un’intensità superiore a qualsiasi psicologismo analitico. La sua macchina da presa sa “comprendere”, incrociando i territori del bene e del male, quel caos della realtà che sfugge alle spaurite stanze della logica.
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