Un film anacronistico, piccolo come tanto nostro cinema italiano: stile televisivo, approssimativo nei tempi e nel linguaggio, esile nella tela narrativa, e abitato da personaggi caricaturali sullo sfondo di immaginarie città di provincia. Nel paese dei Beliér, la fattoria è un luogo ideale: non si avverte la stanchezza del lavoro, tutto scorre allegramente tra vitellini e formaggi, mercati e produzione. La giovane protagonista Paula affronta con disinvoltura la pressione terribile cui è sottoposta: sveglia alle sei, lavoro, poi bicicletta, autobus, scuola, ma soprattutto mediazione linguistica per i genitori – una coppia di sordomuti usciti da una comica degli anni ’10. La mimica esagerata, gli equivoci da barzelletta, le gag sempliciotte e schematiche sono il pretesto per facili effetti comici; la scena dal ginecologo è il punto più basso e imbarazzante. Il film affastella clichè su clichè – l’adolescenza, i primi amori, le tensioni familiari, il professore buono, il matto del paese; e presenta il tipico rovesciamento secondo cui alle difficoltà iniziali di Paula lentamente subentrano il successo e il riscatto, rappresentati da una competizione canora: l’epitome del banale contemporaneo. Per fortuna Louane Emera è brava e riesce a conferire sensibilità e commozione ad una pellicola debole come le canzoni di Sardou, di cui è pesantemente infarcita. Ma quel ralenti finale non si può vedere.