Ne “La camera chiara”, Roland Barthes definisce la fotografia “contingenza pura”: immagine viva di una cosa morta. I fotografi, dunque, non sono che “Agenti della Morte”. Ho pensato a questi concetti mentre guardavo Un piccione seduto su un ramo: una sequenza di inquadrature fisse, al cui interno si muovono personaggi “già morti”: cadaverici, sfatti, ombre in un contesto completamente ricostruito. Andersson rifiuta l’idea di cinema come movimento, perchè l’umanità è già prigioniera della sua morte. L’amore, il potere, il male, la sopraffazione, perdono qualunque pathos mentre la morte è al lavoro. Tutto è ripetizione: geometrica, stilizzata, asciutta. L’esistenza è un’illusione misera: costellata di baci senza amore – che pure emozionano – e bicchieri d’alcol in cui sprofondare la memoria. Non c’è il tempo nel film di Andersson: presente e passato coesistono, senza dramma o trasformazione: solo poche domande ossessive, l’automatismo del vivere, e la piccola ribellione di chi vuole sfuggire alla gabbia del quotidiano: “’E’ mercoledì? Eppure lo sentivo come un giovedì”.
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