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Il film si apre su uno schermo nero attraversato da scariche elettriche: “It’s alive”! Mentre il giovane Solo ridà vita al suo veicolo, Ron Howard innesca, con un omaggio a Frankenstein, la sua deflagrante corsa attraverso il cinema.
Howard realizza un film che “parla” continuamente con lo spettatore: lo coinvolge e trascina al suo interno, dentro l’apparato che lo regola e nella messa in scena delle illusioni. Non è un caso che guardando Solo si abbia costantemente la sensazione di attraversare un teatro di posa: Solo è allo stesso tempo film e “making of”, opera e riflessione sulla sua genesi e sul suo farsi. E solamente un regista cinefilo, colto e dalla sapienza artigianale di Ron Howard poteva stratificare un oggetto meramente disneyano in modo da farne anche uno “studio” metacinematografico speculativo, volto a rivelarci le “meccaniche del sogno”, la messa a nudo di generi codificati e rielaborati. Il tutto senza minimamente appesantire un film che è puro spettacolo, un tributo onirico al cinema d’avventura, dalle spericolatezze del muto, al western, al fantastico cyberpunk in stile Mad Max, fino alle suggestioni orientali alla Bong Joon-Ho, passando per un maelstrom dipinto da Turner.
Howard è perfettamente consapevole di ciò che non è possibile fare in Solo, ovvero portare alla luce il Mito. La serializzazione della Saga, la sua trivializzazione attraverso un marketing che ne ha sottratto l’intangibilità mitica banalizzandone l’immaginario, la riduzione a brand impediscono alle Star Wars Stories di diventare epos: gli stessi personaggi, in questa nuova versione, hanno perso aura e unicità. Il mondo di Star Wars appare semplicemente “riprodotto”, duplicato e filtrato attraverso la dittatura di un’ironia in cui il Mito si dissolve. In questo modo è possibile riprodurre all’infinito la “Storia” in un’infinità di varianti, risolvendola in una messa in ridicolo mediante le battute, lo humour, il sorriso che risolve. Star Wars diviene quindi altro: è già attrazione Disneyland, semplificata e privata di pathos, dramma e romanticismo.
Resta però l’illusione, il piacere del cinema come estasi, frattura con ogni limitazione terrena: è qui che Howard dà il suo massimo, spalancando abissi spaziali, accelerando la percezione, scatenando la vertigine. Su tutte, la scena della rapina al treno è forse uno dei vertici di tutto il suo cinema: il regista ci fa letteralmente volare tra montagne ghiacciate, alla velocità di Snowpiercer e con gli equilibrismi di Harold Lloyd; è una scena che da sola dimostra quanto il regista sappia governare gli spazi, facendoli suoi a velocità impressionante e orchestrando inquadrature, montaggio, movimento in una sinfonia che spalanca i sensi. E questa è magia, oltre il visetto beffardo di Alden Ehrenreich, oltre il carisma puramente televisivo di Emilia Clarke. Là dove non c’è epos, Howard magnifica i nostri sensi con un cinema puro, totale e di sovrumana bellezza.