L’INVASIONE DEGLI ULTRACORPI (1956) di Don Siegel

ULTRACORPI*****
Sapevo che si trattava di una storia molto importante. Credo che il mondo sia popolato da baccelli e volevo mostrarli. Penso che tante persone non abbiano alcuna emozione né sentimento o cultura, nessuna sensazione di dolore, nessuna pena. […] Il riferimento politico per il senatore McCarthy e il totalitarismo era inevitabile, ma ho cercato di non sottolinearlo perché i film servono in primo luogo per intrattenere e non volevo predicare.” (Don Siegel: American Cinema, Londra, 1975 ).

Tratto dal romanzo di Jack Finney “The Body Snatchers” e prodotto nel 1956 dal lungimirante e sensibile Walter Wanger, L’invasione degli Ultracorpi descrive un’invasione extraterrestre in una piccola città della California. Gli invasori sostituiscono gli esseri umani con i duplicati che compaiono identici in superficie, ma sono privi di qualsiasi emozione o individualità.
Concepito a basso budget e ferocemente pessimista, tanto da suscitare l’intervento dello Studio che impose un prologo ed un epilogo rassicuranti (trasformando il racconto in un lungo flashback) L’invasione degli Ultracorpi rappresenta una chiave di volta nel cinema americano.
Il film concentra su di sé, raggiungendo la perfezione formale, la psicosi da guerra fredda e il clima di prostrazione creatosi dopo dieci anni di maccartismo; è il film/emblema delle nevrosi, della paranoia e dell’incombente senso di punizione enfatizzato dalla matrice religiosa e puritana della società americana.
Mentre il governo si era adoperato per rimuovere la “grande colpa nazionale” – lo sgancio della bomba atomicafavorendo produzioni semidocumentaristiche e giustificative, il cinema di genere di quegli anni, perfetto e affilato come un incubo, recupera il rimosso e macchia le colpe col terrore. Nelle produzioni a basso costo si scatena un inferno punitivo, la rappresentazione di un destino cui non ci si può sottrarre; il clima è quello di una mistica condanna e mancanza di una via d’uscita: l’apocalisse che ingoia e divora i peccati della razza umana.

L’astrattezza ideale del sogno americano (dal candore di Capra all’infinito del western) si trasforma nel terrore dell’invasione, nell’infiltrazione di un corpo freddo, estraneo, capace di distruggere natura/emozioni/cultura.
Come altre produzioni simili e contemporanee, L’invasione degli Ultracorpi si può definire come un western “al contrario”, in cui la colpa imperialista si mescola alle ferite della guerra. L’opera di Siegel è lo spettro malato del nazionalismo, ribalta l’ideologia colonialista di cui si stavolta è ipotetica vittima ad opera di creature sconosciute ed orribili.
E proprio mentre negli anni ’50 il western perde, in opere malinconiche, deluse e prive di certezze, la baldanza propria di quell’espansionismo vitale che caratterizzò i decenni precedenti, la fantascienza diviene il genere ideale da ancorare alla metafora politica.
La guerra fredda crea tensioni nell’immaginario artistico: l’ “altro”, il nemico, assume le fattezze di una minaccia senza volto; una realtà possibile, presente, priva di riferimento storico e quindi inconoscibile. Questo fa sì che la paura, nelle sterminate produzioni dell’epoca, si tinga di toni deliranti, schizofrenici o mistici. Di fronte al vuoto, l’America cerca l’assoluzione di Dio e lo fa con un atteggiamento misto di sublime e ridicolo (si pensi a The next Voice you hear (1950) di William Wellman, in cui Dio comunica addirittura al telefono). L’America chiede perdono per l'”imprevisto” tecnologico, per le scoperte della scienza applicate alla guerra e tramutate in mostri (ecco allora la schiera di formiche o ragni giganti, i fantasmi delle radiazioni nucleari, le creature disumanizzate e i bambini dagli occhi bianchi).

Il senso di insicurezza si rovescia nell’irrazionale, in particolare nella paura dei dischi volanti; e così, mentre si moltiplicano gli avvistamenti, le ricerche ufficiali, i files top secret, L’invasione degli Ultracorpi instaura a livello narrativo un sistema basato sul dualismo tra l’umano e l’insondabile, il conosciuto e l’alieno.
Se il film di Siegel è diventato l’emblema di un contesto storico-sociale, ponendosi significativamente al di sopra di tutta la fantascienza dell’epoca, il motivo è da ricercarsi nella sua qualità estetica. Siegel si affida ad uno stile scabro, trasforma il vecchio esattamente come i suoi baccelli divorano l’umanità obsoleta, sentimentale e fragile.
L’occhio di Siegel predilige una valenza simbolica visiva (in cui trionfa l’evidenza dell’oggetto), che si trasferisce come un pugno nell’incoscio. La sua è una regia moderna e sperimentale, che apparentemente riprende i canoni propri degli anni ’40, per distruggerli dall’interno.
Il film affila i contorni delle ombre, toglie elusività ai chiaroscuri e si affida ad una spietata profondità di campo.
I contrasti del noir si trasformano e si fanno taglienti; tutto ciò che vi era di allusivo, sfumato, spirituale nel noir (che è film dell’anima) nell’Invasione degli Ultracorpi si fa concreto: un film del corpo e dell’oggetto, utilizzato nella sua potenza freudiana.
Il terrore diventa reale. Dal regno della possibilità si passa alla sua terrificante attuazione: lo spettatore è faccia a faccia con la paura/corpo estraneo, con l’invasore che succhia l’anima, e le scelte stilistiche del film, improntate ad una lucida schizofrenia, enfatizzano il suo sgomento. Siegel si serve di una tecnica che imprime al film una qualità tattile, e attua un controllo compositivo che mira a limitare le interpretazioni possibili a favore di un unico, innegabile sguardo agghiacciato.

L’accento dato alla profondità di campo è un segno proprio di quegli anni: è interessante notare che parallelamente la stessa precisione veniva utilizzata, ad esempio, nei film antibellici di Fuller: la profondità di campo si fa linguaggio figlio del trauma.
La realtà ha perso la qualità di sogno soffuso fatto di notte e nebbia; è uno schiaffo alla luce del sole, aspro e minuzioso. L’invasione degli Ultracorpi apre gli occhi degli spettatori con la crudeltà di una lama. La trasformazione degli individui avviene al riparo della notte e del sonno, mentre il giorno è la dolorosa rivelazione di un nuovo che avanza e divora. Siegel pretese che le numerose scene notturne venissero girate senza “effetto notte” ma propriamente al buio, per rendere più reale il contrasto tra i due stadi psicologici ed esistenziali rappresentati: la notte come fuga, lotta, speranza, trasformazione. Il giorno immutabile e irreversibile nel suo orrore.

(già apparso su Nocturno dossier n. 126)

IL DOTTOR JEKYLL (1931) di Rouben Mamoulian

jekyll
*****
Nel 1931 la Paramount affida a Rouben Mamoulian la realizzazione del classico di Stevenson, per farne la prima versione sonora e contrastare il successo degli horror dello studio rivale Universal. Un compito che Mamoulian trasforma in un sogno sperimentale e atmosferico, nonché uno dei film più intensamente erotici della storia del cinema (siamo ancora in era pre-codice Hays e Il dottor Jekyll sfrutta tutto il suo potenziale morboso). Nel film il regista, coadiuvato da Karl Struss (direttore della fotografia di film come Aurora di Murnau), si serve di tutta la sua creatività fantastica per creare un linguaggio cinematografico senza limiti, fatto di soggettive, dissolvenze, montaggio rapido, stilizzazione, primissimi piani sugli occhi dei protagonisti.

Mamoulian ci conduce, per mezzo di dense nebbie, chiaroscuri, sovraesposizioni e ritmi irregolari (come il battito cardiaco di March nella tormentata trasformazione) nel ventre più nero degli impulsi sessuali, proiettati sulle due antitetiche figure femminili: la virtuosa Muriel (Rose Hobart) e la prostituta Ivy (Miriam Hopkins); ma mentre Rose Hobart incarna la noia della perfezione (e quindi dimenticabile), è sulla perfomance della Hopkins che si potrebbero scrivere libri interi. La sua sfortunata, sfrontata e innocente Ivy macchia di desiderio le inquadrature e invade gli occhi e la memoria. Se Mamoulian si adopera a raddoppiare lo spazio dello schermo con dissolvenze incrociate, profondità di campo ed zoomate improvvise, è esattamente per intensificare ciò che il cinema può contenere: le voglie, la colpa, la paura, gli istinti, la bestia e la preda.

Miriam Hopkins, mai così bella, fa del suo corpo l’oggetto e il simbolo, lo strumento filmico da cui si irradiano sottotesti – la scollatura, la schiena nuda, il profilo del seno – e soprattutto quella gamba su cui Mamoulian induce: penzolante dal letto, adornata da giarrettiera, dondolata avanti e indietro. Un’immagine che si sovraimprime sulla successiva a indicare la permanenza del desiderio ossessivo. E poi la fisicità dell’attrice, così minuta, bambina e vulnerabile; la Hopkins porta alla luce l’impulso nudo, la sua legge violenta, crudele e cieca.

IL FUORILEGGE (THIS GUN FOR HIRE) di Frank Tuttle (1942)

thisgun*****
“Puro melodramma, diretto e vizioso; dalla scrittura tesa, morboso ed esplosivo”. Così Bosley Crowther, critico del New York Times, recensì IL FUORILEGGE (This Gun For Hire, 1942), il giorno dopo la sua uscita nei cinema americani. Diretto da Frank Tuttle e di produzione Paramount, This Gun For Hire divenne uno dei primi e più importanti film noir e fece di Alan Ladd (dopo dieci anni di gavetta e ruoli minori) una star accanto a Veronica Lake. I due formarono una coppia iconica di impossibile bellezza: un’astrazione in cui si condensavano i codici del genere – la solitudine, il mistero, la tensione erotica, il malinconico cinismo – ma anche due corpi cinematografici su cui si esercitò l’immaginario ed il desiderio di generazioni (innamorato del film, il regista francese Jean-Pierre Melville trasformò Delon nel “fantasma” di Ladd in Le Samourai, 1968).

Meno romantici, più riservati di Bogart-Bacall (l’insolente coppia antagonista della Warner Bros), Alan Ladd e Veronica Lake si trovano al centro di uno dei film più asciutti, essenziali e significativi del decennio; un’opera miracolosamente moderna e pervasa da un cupo senso funebre. Tratto da un romanzo di Graham Greene, This Gun for Hire stabilirà molte delle convenzioni del noir e ne anticiperà gli sviluppi futuri, con una regia che è specchio della sensibilità alterata del protagonista, una fotografia onirica ed espressionista, una dimensione temporale interiorizzata ed uno sguardo traumatico sulle cose.

Tuttle dirige con grande concentrazione, puntando ad un sintetico ed espressivo linguaggio cinematografico – attenta composizione dell’inquadratura, transizioni rapide ed epifaniche, dettagli significanti, grandissima pulizia e cura della messa in scena, découpage di classico nitore – il tutto immerso in una luce spirituale, tra penombre dell’inconscio e buio attraversato da raggi sovrannaturali. Scarni invece i dialoghi, che rivelano uno stato di costante afasia (siamo lontanissimi dalle brillanti ed allusive schermaglie dialogiche de Il Grande Sonno, 1946). Tra Ladd e la Lake l’attrazione è stupefacente e magnetica, ma costantemente inespressa, fino allo “spostamento” finale dell’oggetto del desiderio (l’abbraccio della Lake a Robert Preston) che è quanto di più profondo e struggente il cinema ci abbia mai offerto.

GREMLINS 2 di Joe Dante

gremlins2
(Articolo pubblicato in occasione dei 28 anni del film)
“Ho diretto Gremlins 2, dopo innumerevoli pressioni da parte dello Studio, per evitare che ci fosse un Gremlins 3”. Con la sua consueta ironia, Joe Dante ha spiegato in varie interviste le circostanze da cui è nato il sequel del suo più grande successo: un’opera più personale, estrema, colma di gag, allusioni, rimandi cinematografici; un film talmente saturo di se stesso da cancellare l’eventualità di un ulteriore episodio. Gremlins 2, con la sua follia slapstick, la spudorata autoparodia e l’irrisione del merchandising generato dal primo film, fu un raffinatissimo – e allo stesso tempo intenzionalmente sgangherato – manifesto di cinema non convenzionale.
grmlinsbrainIspirato dagli artisti che più ammirava – Frank Tashlin e Chuck Jones – Dante andò a “smontare” letteralmente la dolcezza spielberghiana dell’opera precedente. Spielberg storse il naso di fronte a questo progetto decostruzionista/dadaista, ma non lo intralciò; più allarmati invece gli Studios, che tentarono inutilmente di dissuadere Dante dal “rompere il quarto muro” per giocare con il pubblico. Il regista però non scese a compromessi, rivendicando il valore “brechtiano” del suo gesto artistico: “I produttori, in genere, non vogliono assolutamente che al pubblico sia fatto notare che stanno assistendo ad un film. Mi dicevano: Ma la gente uscirà dalla sala! E io li rassicuravo: Non lo faranno! E’ solo uno scherzo!”
Il tempo gli ha dato ragione: la sequenza che vede i Gremlins distruggere la pellicola e giocare con le ombre cinesi sullo schermo, per poi sostituire il film originale con un erotico d’epoca, resta tra le più apprezzate ed amate; una gag ereditata da Chuck Jones, una riflessione comica ma anche profonda sulla sospensione dell’incredulità, sovvertita dal regista in forme “traumatiche” e umoristiche.
electricGremlins 2 è disseminato di scarti, vuoti, fratture, riferimenti: il film inizia con una sequenza animata diretta proprio da Chuck Jones, con Bugs Bunny e Daffy Duck che fanno a pezzi il classico intro Looney Tunes rubandosi a vicenda il logo della Warner Bros: un inizio che stabilisce subito il gusto anarchico che presiede l’opera. Tra i personaggi del film, memorabile il “mad doctor” Christopher Lee, inquadrato più volte in primo piano e soffuso da una luce verde, allusiva della satura e irreale fotografia Hammer Films. Dante passa in rassegna, con spirito iconoclasta, svariati cult tra cui Rambo (Gizmo lo adora e ne copia lo stile indossando una fascia rossa sul capo) e Il Fantasma dell’Opera (“interpretato” da un gremlin sfigurato dall’acido). Lo stile violento e ipercinetico del film si concede persino una degenerata incursione nel musical, con un numero alla Busby Berkeley.
gizmogremlins_2Dante non si ferma di fronte a nulla, rompe le regole, contamina, satirizza; arriva a coinvolgere persino il più celebre critico del periodo, Leonard Maltin, inquadrandolo mentre, dvd alla mano, stronca il primo film (come accadde nella realtà): stroncatura interrotta dalla furia vendicativa dei gremlins, che si avventano su di lui. Siamo di fronte ad una vera e propria rivincita pirandelliana dei personaggi: un capitolo di pura avanguardia, che prevedibilmente il pubblico non comprese, affossando il film al botteghino.

(articolo apparso su Nocturno n. 171)

GREASE (1978) di Randal Kleiser

grease***
1978: nell’anno in cui Cimino comprime le angosce di una generazione ne Il Cacciatore, e Carpenter insinua il male nella tranquillità dei sobborghi in Halloween, si innesta il sogno consolatorio di Grease, supermarket anni ’50 di colori caramella, sentimenti vergini e orizzonti puliti. Diretto senza sottigliezze da Randal Kleiser, Grease diviene lo specchio di un paese che ha bisogno di guardarsi in modo limpido per ritrovare i valori elementari della propria coscienza lacerata. E’ un film fenomenico con cui l’America fa un makeover della propria interiorità, esattamente come i T-Birds trasformano un rottame in un’auto di lusso nella famosa scena “Greased Lightnin”.
Minato da ingenuità narrative e da una struttura che procede per accumulo, Grease si è innalzato al di sopra della propria oggettiva medietà per due motivi fondamentali: l’adesione del pubblico alla semplicità archetipica dei caratteri descritti, e l’aspetto divistico dell’intera operazione, che ammanta il film di fascino stellare (assente nel fallimentare sequel). Grease è John Travolta, febbrile, sessuale, ironico: ogni inquadratura trabocca del suo magnetismo, in una spirale di autoreferenzialità che cita e distrugge il più complesso Tony Manero di Saturday Night Fever (con cui Travolta era esploso l’anno precedente). A fargli da contraltare candido e hopelessly devoted, il viso di Olivia Newton John, fidanzata inoffensiva d’america, che nella ribellione “al contrario” messa in atto nel finale del film, incarna un necessario ideale di affidabilità femminile. Nella sua Sandy non vi sono asperità o conflitti: il suo unico obiettivo è unirsi al suo uomo in un giuramento di fiducia che è lo stesso dei giovani americani alla propria bandiera. Nel contesto azzurro e vitaminico che si muove attorno ai due protagonisti, va sottolineata la performance di Stockard Channing, capace di tratteggiare un personaggio femminile moderno e tormentato, di sensibilità chiaroscurale, in cui il film ripone la sua anima più vulnerabile.
Profondamente radicato nella sua contemporaneità, Grease mette in scena un curioso processo di nostalgia del presente: nel suo passato immaginato e ricodificato, paradossalmente offre il privilegio di un futuro.

(già apparso su Nocturno, dossier 116: Teen Comedy)

PRINCE: DA PURPLE RAIN A UNDER THE CHERRY MOON

cherrypppCon i due film realizzati negli anni 80 – Purple Rain (1984) e Under the Cherry Moon (1986) – Prince attua un’operazione di creazione e decostruzione del mito. Si tratta di due opere profondamente differenti con le quali l’artista espresse in forma cinematografica l’arco evolutivo del proprio atteggiamento verso lo “star system” discografico e ancor più, la percezione di se stesso.
Purple Rain ha un impianto drammatico archetipico (il “viaggio” dell’eroe alla scoperta del sé, attraverso l’esperienza ed il rapporto amoroso) su cui si innesta una duplice struttura sensoriale: quella musicale e quella figurativa. Purple Rain racconta una storia elementare di amore e riscatto, ma la star viene forgiata quasi esclusivamente dal vortice sonoro/visivo che si sprigiona dal film.

The Kid parla poco, si esprime con dialoghi mozzati ed allusivi; ha un’allure di mistero che lo circonda, è assenza, sparizione, atmosfera. Raramente ci appare nella sua interezza: le inquadrature lo sezionano in dettagli – il viola degli abiti, la mano elegante e guantata, lo scintillio degli occhiali a specchio, la cromatura della motocicletta. In questi frammenti, The Kid è luce e colore. Egli muta fino a farsi corpo nella sua interezza solo quando è sul palco: lì trova la propria rappresentazione. Sotto i riflettori, ed in una sovrumana esaltazione sonora/luministica, ciascun indizio frammentario si ricompone in unità: The Kid diviene Prince, con l’assenso delle majors discografiche.
Purple Rain, ambientato in una Minneapolis circoscritta e trasfigurata in interni, è il palco universale in cui musica e idealizzazione biografica combaciano; il pubblico riceve la star sognata, nata da una famiglia disfunzionale per elevarsi fino alle stelle. Purple Rain si basa su una semplificazione dei conflitti e delle relazioni rappresentate per far emergere la star aurea, la divinità musicale consegnata all’adorazione del popolo. Albert Magnoli dirige magnificando il divo, come accadeva nel muto: si affida all’incanto di scene simboliche (la gita al lago), alterna sequenze musicali oniriche e realistiche scene di vita (lo squallore della vita familiare di Kid), ma soprattutto indugia in numerosi primi piani di un Prince silenzioso; il suo mutismo lo qualifica come proiezione onirica e visione estetica.

Purple Rain edifica un mito in modi convenzionali, pur servendosi di una forma eccezionale, che è Prince stesso. Quella stessa forma viene rovesciata in Under the Cherry Moon, in cui Prince dimostra insofferenza nei confronti di qualsiasi circoscrizione della propria personalità. La star iconica e malinconica, colma di arte e dolore non è che una limitazione da cui Prince si agita per liberarsi. Under the Cherry Moon decostruisce l’Artista per farlo rinascere più vivo e vero.
Diretto da Prince stesso, Under the Cherry Moon si spoglia della musica – che non è più avvolgente, strumento per ammantare il personaggio di leggenda – e del colore; ma si riappropria della parola. In un film che è un omaggio stilistico/sentimentale agli anni ’30 – nel decor, nella luminosità del bianco e nero quanto nella follia scanzonata e liberatoria del pensiero – Prince tenta quasi un dialogo screwball (assieme al buddy Jerome Benton, e all’oggetto d’amore Kristin Scott Thomas). Under the Cherry Moon prende le mosse da un interno alla Casablanca per trasformarsi in una commedia in cui si affastellanno gli echi di Hawks (lo scontro di mondi opposti, la farsa fisica, con Prince/Susanna pronto a sciogliere una rigida Scott Thomas) e di Gregory LaCava (nella caratterizzazione di personaggi fragili e idealisti, sognatori e viziati). Certo, lo spirito sofisticato tipico dei ’30 spesso resta più un’ambizione in filigrana; ma il film è costellato di dialoghi pungenti e scene di raffinata bellezza. Prince è visibilmente affascinato dal bizzarro, da un’anarchia quasi surrealista che, tra battute risibili ed ingenuità registiche, riesce ad afferrare in momenti rari quanto magici.

Il suo Christopher è profondamente diverso da The Kid: loquace, con un penchant per la clownerie; sensuale, certo, ma il mistero è messo a nudo, in tutta la sua meravigliosa contraddittorietà: più marcatamente androgino, capriccioso come una diva eppure galante come un principe; vestito di broccati e gilet su pelle nuda, su un corpo che riluce più dei diamanti della sua partner. Prince è Mae West, è Carole Lombard, e sfugge a qualunque classica iconografia del “rocker maledetto” codificata dal mercato discografico.
Il finale del film è profetico per un artista che si offriva fuori dagli stereotipi, e fuori da ogni legge.

LA PAURA MANGIA L’ANIMA di Rainer Werner Fassbinder (1973)

Nel 1955, Douglas Sirk, emigrato a Hollywood con tutto il bagaglio di pessimismo romantico tipico degli autori di estrazione germanica (Lang, Wilder per citare i più famosi), realizzava Secondo Amore. Un film sublime, sull’impossibile amore tra una vedova benestante (Jane Wyman) ed il suo giovanissimo giardiniere (Rock Hudson) nell’america puritana e benpensante dell’epoca.
Fassbinder amava molto Sirk e soprattutto questo film. Ne amava la disperazione, il sentimento originario e istintivo che lo guidava; ne amava la malinconia, il pudore gentile dei protagonisti, il loro muoversi leggeri e incolpevoli nella vergogna e nella condanna generali, da parte di una società che non tollerava comportamenti “diversi”.

18 anni dopo, il regista ricrea l’incantesimo bizzarro e la purezza di quel film con il suo Angst essen Seele auf (La Paura mangia l’anima); spariscono, però, i sobborghi di lusso del New England, i giardini ben curati, l’eleganza iperrealista tipica della regia di Sirk. La paura mangia l’anima è un film immerso in realtà tristi e squallide, mura scrostate, edifici grigi e modesti; ed i protagonisti incarnano un nuovo ideale di vergogna sociale: la donna sessantenne, non bella e dimessa, ed il giovane immigrato.

Ciò che più colpisce della mano di Fassbinder è la sua capacità di comunicare l’amore in un contesto che appare danneggiato ed incurabile; il sentimento, puro ed ingenuo dei protagonisti, riveste di grazia il loro vissuto. La loro relazione è oggetto di scherno, di insulti, tanto da ridurre la coppia ad uno stato di miseria ed emarginazione sociale; ma questo amore che fa battere il cuore al film è reale e palpabile come i colori rossi, verdi, blu accesi che ogni tanto squarciano l’azzurro mesto della pellicola.

La paura mangia l’anima è un film straziante e crepuscolare, composto ed eroico, fatto di emozioni limpide e intatte in una realtà incapace di sognare o tollerare chi aspira a volare sulle miserie umane.
Forse il film più dolce e romantico di Fassbinder, è allo stesso tempo quello in cui sentimenti sono rivelati nel loro valore immediato e quasi archetipico; un viaggio sentimentale in una realtà violenta, aggressiva e livida pronta ad assassinare la delicatezza di un affetto innocente. Amare è un mestiere per sopravvissuti.