Gion Bayashi (La musica di Gion, 1953) di Mizoguchi Kenji è un film bellissimo e complesso, che in soli 85 minuti posa il suo sguardo sulla tradizione delle geishe e sulla loro vita, dall’apprendistato alla maturità, nel quadro del Giappone del dopoguerra. La sensibile e raffinata regia di Mizoguchi cala la realtà di queste ragazze in un contesto impalpabile di bellezza e cultura tradizionale, tra canti, danze, ampi interni adornati da tendaggi trasparenti e preziosi; ma allo stesso tempo rivela subito la brutalità del mestiere, che prepara le giovani con la massima severità solamente per farne preziosi trastulli destinati al consumo maschile.
Ancora una volta, come spesso accade nel cinema giapponese, le donne vengono ritratte in tutta la loro profondità e fierezza: Miyoei e Miyoharu (le stupende Wakao Ayako e Kogure Michiyo) sono due protagoniste combattive, duramente messe alla prova dall’esistenza, ma colme di dignità. In particolare, il personaggio di Wakao Ayako contiene il germe dell’inquietudine e l’anelito alla libertà propri di tutta la gioventù del dopoguerra. Se l’adesione di Miyoei all’apprendistato è condotta con totale rigore, il rifiuto di ridurre il proprio ruolo a semplice prostituzione è altrettanto fermo. Assalita da un cliente che vuole possederla, Miyoei lo combatte fino a mordergli le labbra; e l’immagine che segue la collutazione – con Miyoei bellissima e sconvolta, i capelli ornati dai fiori e la bocca sanguinante – contiene tutta la natura “ossimorica” della vita della geisha, educata alla raffinatezza e costretta a subire gli impulsi maschili più turpi. Altrettanto bello, ma meno “ferino” del ruolo di Wakao (che per tutta la sua carriera incarnerà la duplice natura femminile, innocenza e selvatichezza), il personaggio di Kogure: una geisha più esperta e amareggiata, segnata dalla malinconia e con un istinto materno che la porta a proteggere il destino della giovane Miyoei. “La parte più nera di questo mestiere mi ha avviluppata”, dice Miyoharu, consapevole della propria “caduta”.
Mizoguchi filma con grande delicatezza, inquadrando le figure umane dietro la trasparenza di una tenda o incorniciate in interni-prigione in cui si consuma un destino segnato: la scrittura filmica del regista è invisibile, eppure segue, accompagna, scruta o ci allarma con grida fuori campo. Secondo alcuni critici si tratta di una regia impassibile e anti-sentimentale: ma a mio parere i volti delle due interpreti, ripresi da una “distanza”, recano un dolore profondo che lo spettatore vive per tutto il film. Tra le due donne c’è una profondissima solidarietà, un amore che le lega in un silenzioso patto di reciproca protezione e comprensione; mentre il mondo maschile è rappresentato egoista e ottuso, incline alla ricerca immediata del piacere e cosumato dall’avidità.
Una nuova “dedica a Ozu” in occasione dell’anniversario: la Tucker porta al cinema, in versione restaurata, Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Fiori di equinozio (1958), Buon giorno (1959), Tardo autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962), cui si aggiungono anche i meno noti Una Gallina nel vento (1948), Inizio d’estate (1951), Il sapore del riso al tè verde (1952), Inizio di primavera (1956) e Crepuscolo di Tokyo (1957).
Tempo fa mi colpì questo commento di un utente su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero: è il primo effetto che fanno, e lo notò anche il regista iraniano Kiarostami. Ogni film di Ozu è espressione del suo amore per la vita e per gli esseri umani, come testimonia un’intervista pubblicata nel 1949 su Asahi Geinō Shinbun : “Vorrei ritrarre il fiore di loto nel fango… Vorrei riflettere a fondo sulle cose e ritrovare quella ricca umanità che le persone hanno per natura…”. Non si tratta solo un cinema gentile, ma anche attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare solo per il suo valore storico o culturale. La visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.
Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono anche i nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.
Late Autumn Remaster
Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa (nella sua tipica posizione “bassa”), dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non si serve di modalità soggettive. Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte la figura umana è di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una ripresa frontale non sa esprimere.
Nelle sue opere ogni linea dell’inquadratura, ogni geometria risultante dalla composizione, ogni pieno e vuoto e ogni oggetto – inclusa la “presenza” umana, talora reificata in un nulla compresente alle cose – converge nel creare un sottile universo percettivo: l’aspetto magico del suo cinema è il rigore della messa in scena, che si fa più radicale nelle opere del dopoguerra, in un passaggio graduale dalla sperimentazione alla semplicità. “I limiti dell’inquadratura esistono. Come mostrare le cose con e dentro tale cornice? Escludere lo spazio che non puoi mostrare all’interno dell’inquadratura può essere interessante, e questa è la mia scelta.” [Intervista su KinemaJunpō, agosto 1958]
Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: le donne dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccate in uno spazio e costrette dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.
“La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso di Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.
La malinconia del vivere permea le immagini del suo cinema: compito degli esseri umani è accettare la transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo. Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara: si tratta, piuttosto, di un sentimento del vivere, come un’ombra nella serenità o un transitorio senso di gioia, oppure un sollievo che rincuora esattamente come una nuvola lascia emergere il sole. Ozu non sfrutta mai, né strumentalizza i suoi personaggi; non se ne appropria, come spesso accade in tanto cinema contemporaneo. Quando li osserviamo, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo indeterminato e passeggero: secondo Ozu, “il regista non deve tirar fuori i sentimenti dagli attori, deve contenerli” (Kinema Junpō, 1947). Allo stesso tempo, la sua sensibilità lo porta a lasciare agli spettatori un indizio, un elemento che possa informarli del carattere dei protagonisti: il modo in cui portano alla bocca un bicchiere di saké, si tormentano i guanti o camminano (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante (si pensi all’emozione di Kyō Machiko mentre accende la sigaretta all’amato in Erbe Fluttuanti, Ukigusa, 1959).
Il cinema di Ozu avvicina le persone, annulla le distanze culturali e l’abisso del tempo. Tanta è la capacità del regista di studiare l’animo umano da farlo splendere come un fiore al centro dello schermo: la corolla sbocciata (lo splendore della giovane Noriko in Tarda Primavera, Banshun, 1949) o gualcita al tramonto (il dolore di Akiko, sola e afflitta in Crepuscolo di Tokyo, Tōkyō boshoku, 1957). L’opera di Ozu, così umile ed essenziale, continua nel tempo a toccare corde profonde: “Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo” (Tōkyō Shinbun, 14 dicembre 1962).
Bibliografia: Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Donzelli, 2016 Yasujirō Ozu, Dario Tomasi, Il Castoro, 1996 Film: I lived, but… (Ikite wa mita keredo: Ozu Yasujirō den, regia di Inoue Kazuo, 1983), Shōchiku
Qualche riflessione su Misumi Kenji, cui mi sono avvicinata da poco, protagonista del #CinemaRitrovato della Cineteca di Bologna. In DESTINY’S SON (KIRU, 1962) trovo impressionante il suo controllo formale, l’uso dello spazio e ancor di più dello sguardo degli attori, che sembrano sempre rivolgersi a un “oltre” fuori campo. Anche nei dialoghi, gli attori non incrociano mai davvero gli sguardi, ma li “lanciano”, con una lieve sfasatura, in un infinito spirituale; lo spazio come possibilità, ricerca di futuro, dimensione altra in cui i protagonisti tentano di proiettarsi. La morte rappresenta, in questa visione, una brusca interruzione dell’esperienza terrena, ma anche un anelito a un aldilà forse più giusto, dove i destini potranno comporsi. Ma nel frattempo la vita è tragica e frammentaria (Misumi la traduce in narrazione episodica, intervallata dall’immagine di un sole implacabile, che “splende sulle sciagure umane”) e i personaggi vagano in destini labirintici (si veda la bellissima sequenza prefinale).
C’è, in Misumi, un forte senso di disvelamento della finzione, ad esempio attraverso le inquadrature dall’alto che ci mostrano le stanze come set cinematografici o teatrali, separati da porte che si aprono e chiudono, quasi fossero fondali; e c’è anche una netta stilizzazione coloristica, con grafismi intensi, linee affilate e grandi contrasti cromatici. Ad accentuare questa precisa vocazione formale interviene poi la colonna sonora, dai suoni elettronici e freddi: note glaciali sembrano ingoiare il tempo e la storia, raggelandoli in un racconto che si ripete eterno, in un ciclo di morte e astrazione. Protagonista d’elezione di Misumi è Ichikawa Raizō, proveniente dal teatro Kabuki (dove non riuscì a sfondare perchè “troppo giovane”) e anch’egli una sorta di strano personaggio errante, orfano, dal destino tragico: muore di cancro a soli 37 anni, all’apice della fama, adorato soprattutto per la vulnerabilità che i suoi caratteri erano in grado di emanare. Un volto pieno di grazia.
Nel 1964 Misumi realizza KEN (da un racconto di Mishima) uno dei suoi rari gendaigeki; ma una serie di inquadrature (le immagini del sole, i combattimenti, i primissimi piani) testimoniano il legame con Kiru (Destiny’s son, 1962), attraverso una riproduzione quasi shot-by-shot che è una dichiarazione di continuità. Privo dei colori intensi di abiti ed interni, della delicatezza pittorica dei quadri naturali e dell’azzurro del cielo, Ken sceglie un bianco e nero contrastato con il quale raffigurare la laconicità del presente. Spogliato del suo costume storico, del trucco e dell’acconciatura, Ichikawa Raizō (nel ruolo di Kokubun, capitano di una squadra universitaria di Kendo) appare a disagio, ancor più vulnerabile e pensoso.
Se nel mondo feudale la disciplina e gli ideali di purezza erano valori inattingibili che magnificavano l’eroe, conferendogli tratti divini, negli anni ’60 il personaggio interpretato da Ichikawa Raizō è considerato dalla maggioranza dei suoi simili alla stregua di un disadattato. Il mondo è cambiato, la nuova gioventù è cinica e anticonformista; il rigore degli allenamenti di Kendo, la violenza che li presiede, l’ascesi simile a un martirio cui aspira Kokubun sono retaggi di un passato che appare incomprensibile. Eppure quanto fascino in queste dure scene di allenamento, quanta spiritualità, seppur deragliata. Il piccolo esercito di guerrieri turba la quiete sonnolenta del villaggio sul mare; la loro nera silhouette si insinua nel paesaggio. Kokubun “vive” solo quando è perfettamente calato nel suo ruolo eroico, all’interno della classe di Kendo – e difatti il suo rivale Kagawa lo odia e lo ammira al tempo stesso, con un trasporto che ha una componente fisica e omoerotica. Lo spazio di Kokubun – una dimensione impenetrabile, fatta di rigore e sottrazione – resta confinato in un “oltre” sovrumano – o forse troppo umano: “Gli uomini si suicidano così facilmente?” “No, solo i molto deboli o i molto forti.”
Articolo pubblicato in occasione del restauro del film, proiettato al festival “IL CINEMA RITROVATO“
“Sono diventato assistente di Ozu ai tempi di La donna nella retata (1933). Lo ammiravo enormemente ma rimasi sorpreso da quanto fosse duro il lavoro. (…) Ozu continuava a spostare gli oggetti dopo ogni ripresa: c’era questo quadro su una parete, e lui continuava a spostarlo di una frazione di centimetro. (…) Se fare cinema è così problematico, io smetto!, pensai; e chiamai la mia famiglia per dirglielo.”(Kinoshita Keisuke, intervista contenuta nel documentario I lived, but…, 1983.)
Nel comporre un’immagine Ozu si faceva carico di tutto: l’arredamento degli spazi, ornamenti e carte da parati, disposizione millimetrica di ogni elemento all’interno dell’inquadratura, trucco e costumi degli attori. Una meticolosità che fece impazzire molti suoi collaboratori, e che troviamo anche nelle sue prove di genere. È bello vedere Ozu alle prese con il gangster movie, da lui molto amato (aveva già realizzato Passeggiate Allegramente!, 1929, e La moglie di quella notte, 1930) e di cui propone una personalissima versione. Se formalmente i codici vengono riprodotti con grande attenzione – fotografia chiaroscurale, economia del racconto, recitazione stilizzata degli interpreti e attenzione al contesto urbano – il film contiene segni del suo cinema futuro e rivela la sua propensione allo studio dei rapporti umani e familiari.
Tokiko (Tanaka Kinuyo) è una splendida e gelosa donna del bandito, sorta di Jean Harlow amorale ma segretamente alla ricerca di una redenzione; a lei si contrappone Kazuko (Mizukubo Sumiko), la brava ragazza innocente (alla Janet Gaynor) che suscita in Joji, il gangster, una profonda crisi morale. In questa “relazione a tre” quasi lubitschiana, Ozu mescola non solo carrellate, prospettive inedite, profondità di campo, ma anche una varietà di influenze: ci sono immagini spersonalizzanti di uffici, scrivanie e centinaia di impiegati come ne La folla di King Vidor; sfilate astratte di cappelli e di macchine da scrivere, porte che si aprono e si chiudono a suggerire la “sinfonia di una grande città”; sequenze comiche (quelle ad esempio in cui Ozu “gioca” visualmente con l’immagine del cane Nipper, simbolo della celebre etichetta discografica RCA Victor); ma è forte anche la suggestione del melodramma spirituale alla Borzage.
La vicenda si dipana in notti ambigue e misteriose, tra gangsters e locali fumosi: si intuisce l’influenza di Josef von Sternberg nell’uso della luce. Trionfa però la passione di Ozu per i sentimenti e le emozioni umane, i confronti in interni, gli sguardi e i dettagli. Elementi apparentemente casuali sono metafore di stati d’animo e sentimenti (una scarpa abbandonata sul pavimento, un’insegna dalla luce intermittente); l’aspirazione dei personaggi è a una vita migliore, alla “luce del sole”, lontana dai vicoli e dalle tenebre.
L’amore di Kinoshita per il cinema, il suo sentimento nostalgico e umanista e l’inclinazione a rivelare la bellezza del mondo, anche nei suoi aspetti più umili e naturali, lo conducono alla realizzazione di She was like a wild chrysanthemum, tra le sue opere più belle, fragili ed evanescenti. L’intero film è una passeggiata fantasmatica nel passato e nel cuore umano, che trasfigura una dolorosa storia d’amore giovanile nel rimpianto e in una poetica accettazione del destino. Ormai anziano, Masao torna alla terra natale, attraversando su una semplice barca i paesaggi del passato: rivede le coste, i campi, la vecchia casa abbandonata e ritenuta dagli abitanti del villaggio “una casa posseduta”. I ricordi agitano la sua mente, dagli occhi spuntano lacrime. Ryū Chishū è l’interprete miracoloso di un personaggio che non eccede mai nell’espressione dei propri sentimenti: dignitoso, composto, lascia intuire una sofferenza muta attraverso la postura appena curva e un volto intensamente segnato dalla tristezza. È impossibile restare indifferenti di fronte ai primi piani del suo viso rigato dal pianto. Masao ha preso la forma del dolore che lo ha accompagnato per tutta la vita, diventando il corpo dell’amore.
“Ci penso ogni volta che arriva l’autunno. È qualcosa che non potrò mai dimenticare. Sono passati più di 60 anni… Mi sono rimasti solo i sogni del mio passato. Sei stato l’unico amore della mia vita, vivrai per sempre nel mio cuore.” Attraversando il fiume luccicante di sole, nell’aria dolce di un autunno che sembra volerlo confortare e offrirgli un rifugio sospeso nel tempo, Masao ripercorre i propri ricordi sino a renderli vivi e presenti, sonori e visivi. L’uomo rivede se stesso appena quindicenne, accompagnato dalla gentile e delicata Tamiko, la cugina diciassettenne con la quale è cresciuto. Un mascherino bianco ovale, vera e propria aura spirituale che incornicia l’immagine, è l’espediente tecnico di cui Kinoshita si serve per fare del suo racconto un viaggio nella memoria e nel sogno. Il ricordo si circonda di un candore intangibile, il passato si fa allo stesso tempo distanza, luce, visione ultraterrena. Come un cantastorie, Masao traduce in versi poetici la storia triste dei due innamorati, sullo sfondo di un Giappone rurale – gentile di fiori e silenzi – ma irrigidito in una mentalità severa e feudale.
Attraverso il mascherino e la narrazione lirica ma asciutta di Masao, la storia d’amore assume i contorni di un racconto popolare: una storia di innocenza e crudeltà, che vede i due giovani divisi dalle malevole chiacchiere del vicinato, dalla gelosia di una cognata, e dalla mentalità retriva di una madre amorevole ma incapace di concedere la sua approvazione alla relazione. Tamiko non solo è più grande di Masao, ma anche di grado sociale inferiore; il suo destino è la sottomissione. Per impedire che il rapporto possa continuare, il ragazzo viene inviato in una scuola lontana, mentre Tamiko è costretta ad accettare un matrimonio combinato, utile per l’economia familiare. La separazione causa in entrambi un’infinita sofferenza, espressa attraverso il pianto e il silenzio. Kinoshita inserisce nel racconto immagini naturali (meravigliosamente fotografate da Kusuda Hiroshi): le colline immote, i cieli sereni, mentre carrelli attraversano i campi fioriti, accarezzati dal vento. Ogni filo d’erba, ogni corolla curvata sembra condividere il destino di accettazione e sofferenza dei ragazzi, fiori a loro volta: se Tamiko è, nelle parole di Masao, un crisantemo selvaggio, a sua volta il ragazzo viene da lei paragonato a una campanula: “Non mi ero resa conto che le campanule fossero così belle.”
La colonna sonora di Kinoshita Chūji (fratello di Keisuke e suo stretto collaboratore) accresce, con la sua malinconia, l’atmosfera elegiaca di resa: i due giovani non si ribellano ma si piegano alle decisioni e al sarcasmo della comunità. Rimasti soli, sfioriranno giorno dopo giorno, privati di quella felicità data solamente dall’essere vicini, trafitti dalla bellezza della luce. Quella di Masao e Tamiko è la storia di un amore tanto innocente quanto istintivo: i due ragazzi vivono l’uno dell’altra come il mattino gode della rugiada; la loro attrazione è una necessità, un bisogno naturale di presenza, di voci, di sfioramenti. Masao, dal suo dormitorio lontano, scrive una lettera a Tamiko: “stare con te era come essere su una nuvola assieme a Dio”. In queste parole, l’essenza di un sentimento totalizzante e vitale, che vede l’amore come la vita stessa, proiettata nell’ immortalità. Un sentire poetico che ricorda i versi di Emily Dickinson, secondo la quale l’anima cerca la sua compagnia, senza la quale non può vivere. Per entrambi, l’allonanamento è un gesto contro natura che si traduce nella morte: dello spirito e del corpo.
Kinoshita filma con tutta la delicatezza possibile, ma anche con una sensibilità estrema nei confronti di un romaticismo struggente ma quieto, spiritualizzando il sentimento attraverso il mascherino bianco, ritagliando al suo interno geometrie e split-screen dati da oggetti, arredi o colonne: l’incubo della separazione si staglia nelle inquadrature. Le carrellate, i frequenti piani sequenza e i silenzi ci ricordano che tutto scorre e tutto ha una fine, ma l’universo accoglie il pianto e l’amore, conservandoli nell’eternità. “Sulla tua tomba tutto è silenzio, ora solo cantano i grilli”
Sono rimasta istintivamente attratta da questa figura (poco nota in Italia) di rilievo del cinema classico giapponese dopo averlo scoperto come sceneggiatore: a lui si devono, tra gli altri, lo script della trilogia The Human Condition (Kobayashi), così come di Yearning o Hit and Run (Naruse). Matsuyama debuttò nella regia grazie alla collaborazione dell’amico Kinoshita, arrivando a dirigere 16 film. La qualità allo stesso tempo poetica e realistica, brutale dei suoi dialoghi, si ritrova anche nel suo originale stile registico – apparentemente quieto e oggettivo, ma attraversato da impeti di modernità, come primi piani inquietanti e anti-realistici, inclinazioni della macchina da presa, campi lunghissimi e alienanti. Trovo anche unica e molto bella la sua unione con la musa e sposa Takamine, attrice di straordinaria intelligenza che non poteva restare indifferente né al talento, né alla gentilezza di Matsuyama.
Ho avuto modo di vedere due film scritti e diretti da Matsuyama: il primo è Happiness of us alone (1961), il suo esordio nel lungometraggio, un film unico nel suo genere. Nato in seno al popolare filone del “dramma familiare e sociale”, Happiness of us alone diventa un’esperienza di profonda intimità , condotta con un pudore che non impedisce al regista di osservare i suoi protagonisti – una coppia di sordomuti nel Giappone del dopoguerra – in modo straordinariamente moderno e vero. Senza alcuna retorica del “diverso”, il film racconta un amore con una propria cifratura fatta non solo di linguaggio dei segni, ma di segrete corrispondenze; un’affinità elettiva tra fragili esposti alla tempesta della vita, due “semplici” di limpida purezza, in grado di amarsi e sostenersi completamente. La regia di Matsuyama isola i due, ne sottolinea la presenza innocente in un mondo ostile, li incornicia in inquadrature bellissime e simmetriche dove Katayama e Akiko, posti l’uno di fronte all’altro, soffrono, combattono, fino a schiudere una “propria” felicità. Un film bellissimo e duro: Matsuyama riprende in forme naturalistiche la povertà e spietatezza dell’epoca, e non lenisce lo spettatore con confortevoli sentimentalismi. Penso che il contemporaneo Fukada Koji, nelle sue numerose inquadrature di coppie che si osservano dai lati opposti dell’inquadratura, abbia pensato agli equilibri compositivi di questo film. Meravigliosa la scena del treno, che vede i due parlarsi da due vagoni distinti, separati e disperati: il finestrino è il messaggero del loro amore, lo specchio delle proprie anime ferite.
Mother Country (1962) potrebbe essere definito, con una facile formula, un “affresco storico”, se non fosse che “affresco” rimanda a qualcosa di morto, incastonato in un passato lontano. Il film di Matsuyama, che racconta la vita degli immigrati alle Hawaii dagli anni ’20 al dopoguerra, e dell’indefinitezza della condizione dei propri figli – né americani né giapponesi, su cui ricadono in modo particolarmente ingiusto le “colpe” della seconda guerra mondiale – è così vivo che sembra di toccare i paesaggi, i corpi, fino a sentire il vento sulla pelle o le bombe esploderci accanto. Nessuna dolcezza da cartolina in queste Hawaii dal suolo duro, in cui i protagonisti vivono da schiavi per vent’anni, per poi vedere i loro sforzi distrutti dall’arrivo della guerra. Mother Country è un film di esuli, di identità, di vuoti mai colmati: se le Hawaii sono un non-luogo, il Giappone tratterà ancor più violentemente i “figli” tornati in seno alla patria. Seppur classicista, Matsuyama è consapevole del mutamento in atto nel cinema dei ’60: il suo cinema limpido e classico è squarciato da lampi di onirismo, inquadrature raggelate come fermo-immagini, incubi impalpabili. Si tratta di uno dei film di guerra più belli e tristi che abbia mai visto: si svolge non solo in vasti e anonimi campi di battaglia (stilizzati in campi lunghissimi), ma si riflette negli sguardi atterriti, nei corpi emaciati. In Mother Country vediamo Takamine Hideko e Kuga Yoshiko invecchiare, mentre la giovinezza – affidata al viso bellissimo di Kuwano Miyuki – è sconvolta in modo irreparabile. Il Giappone appare disgraziato, crudele e disseccato: tutto ciò che Ozu, dopo il conflitto, scelse di non mostrare, dichiarando “voglio mostrare il fiore nel fango”.
Bisognerebbe avvicinarsi a Fino all’ultimo respiro con la mente completamente sgombra, trasformando il pensiero in un foglio bianco, ignorando i facili schematismi delle “storie del cinema” che contraddicono lo spirito libero del film e lo privano del suo fascino sregolato e vibrante. L’approccio banalmente didascalico difatti prevede che Fino all’ultimo respiro venga descritto come la chiave di volta della nouvelle vague: un oggetto filmico di rottura rispetto alle convenzioni stilistiche sedimentate nei decenni precedenti, un cinema in cui prendeva vita la rivoluzione estetica portata avanti dal giovane Andrè Bazin, il principale teorico della nouvelle vague.
Bazin rifiutava il concetto di montaggio come “specifico” filmico e auspicava invece l’ingresso di un nuovo senso di realtà nel cinema, una realtà non frammentata ma colta nella sua unità di tempo e di luogo. Per i registi e gli ideologhi della nouvelle vague, in linea con gli insegnamenti di Bazin, gran parte delle strutture classiche del cinema americano (ma anche di certo accademismo francese) andavano superate in nome di un maggior respiro di verità; un traguardo da raggiungere soprattutto tramite l’uso della profondità di campo (che non costringe lo spettatore ad una scelta selettiva, ma lo pone di fronte ad una realtà complessa, cui può partecipare attivamente) e il rifiuto del montaggio, colpevole di sottrarre ambiguità e complessità interpretativa agli eventi, ponendo lo spettatore di fronte ad un percorso obbligato. L’approccio storicistico tradizionale quindi carica Fino all’ultimo respiro di una serie di teorizzazioni estetiche e lo contestualizza in un arco evolutivo, ma noi riteniamo che quest’ottica, sebbene “corretta” sia rigida e limitante.
Fino all’ultimo respiro è grandissimo cinema e non si può semplicemente ridurre ad una summa di teorie o una reazione a stili superati. Godard stesso rifiutava di essere categorizzato; tra i registi più anarchici e disobbedienti, sfuggiva a qualsiasi definizione e dichiarava fieramente di non avere una visione precisa di ciò che volesse fare, ma di costruirla via via nel suo cinema coraggioso, non privo di tormentate incertezze. Godard somiglia molto ai suoi personaggi: inquieto, incisivo, talora irritante, nervoso, ambiguo. Grandissimo innovatore in virtù di una personalità ribelle ed indomita; anticonvenzionale al punto da mescolare, nei suoi film, citazioni colte, filosofia, estetica, canzonette, cultura popolare. Fino all’ultimo respiro è cinema in continua trasformazione, estremamente vivo e contraddittorio, che catturava il senso di ribellione dell’epoca ma era frutto di uno sguardo sulla vita e sull’arte del tutto unico e personale.
A differenza di quanto teorizzato da Bazin (che altri registi, tra cui Rohmer, seguirono alla lettera), Fino all’ultimo respiro non respinge il montaggio come linguaggio, ma ne fa un uso estremo e personale: Godard scelse di operare tagli all’interno di una continuità con effetti sussultori, non narrativi o descrittivi. Questa tecnica che gli americani denominarono “jump cuts” nacque da esigenze pratiche, prima che politiche: Godard si ritrovò con 30 minuti in più di girato, ma invece di tagliare intere scene o sequenze, preferì tagliare la scena al suo interno (con squilibri logici), conferendo al film uno stile nervoso imitatissimo tanto dai cineasti colti quanto dai registi d’azione. Per questo motivo Fino all’ultimo respiro è una scheggia di cinema futuro.
Ma vanno chiarite anche le posizioni del film e di Godard nei confronti del passato: se parte della nouvelle vague si dimostrava ostile a tanto cinema americano, per Godard Hollywood rimaneva un oggetto in parte mitico: Fino all’ultimo respiro contiene tutto l’amore di Godard per il cinema di genere americano, in particolare per il noir. Il personaggio di Belmondo è l’evoluzione ironica – esistenzialista e ludica al tempo stesso – dei protagonisti chiaroscurali e malinconici dei noir, in particolare del Bogart dei film di Hawks o Delmer Daves; e allo stesso tempo l’interpretazione di Belmondo diviene parte di una continuità cinematografica, perché l’anarchia del suo personaggio, la solitudine, l’amarezza, il rifiuto di qualsiasi modello sociale saranno ripresi da una serie di registi americani – da Scorsese a Bob Rafelson, da Steven Spielberg a Arthur Penn. Ecco allora il Travis Bickle di Taxi Driver (1976), il Clyde di Bonnie e Clyde (1967), o il Bobby Dupea di Cinque pezzi facili (1970).
Godard, come tutti i più grandi registi, coglieva i fermenti del proprio presente e li trasformava in cinema secondo un linguaggio completamente libero, che fu oggetto di ammirazione ma anche di critiche miopi e grandi ostilità; la sua assoluta libertà nei confronti del linguaggio cinematografico non fu “rivoluzionaria” ma si riallacciava allo stile di grandissimi maestri del muto, come Eric Von Stroheim, Flaherty o Murnau, i quali si opposero ad ogni convenzione descrittiva/narrativa e tentarono, con lo spirito dei grandi romanzieri, di realizzare un cinema totale che contenesse la vita nella sua interezza. Per realizzare questo cinema ogni mezzo era lecito: dalla profondità di campo, dalla continuità temporale al montaggio-shock, dallo spazio filmato nella sua complessità al primissimo piano con valore emozionale. Godard non rifiutava niente del cinema, nemmeno le pratiche degli studios, e prova ne è la dedica di Fino all’ultimo respiro alla casa di produzione americana Monogram, dedita soprattutto ai film di genere (commedie, avventura, noir di serie B) di cui Godard ammirava l’intraprendenza e la fattura artigianale.
Fino all’ultimo respiro è dunque un’esperienza di cinema totale, che va goduta nella sua freschezza, nella sua vibrante e appassionata poesia di vita sfuggente ed anarchica. Se Godard immette nel suo film tutto il suo amore per il cinema, in forma di suggestione o citazione (i già ricordati Hawks, Daves, ma anche omaggi al cinema francese, a Chabrol e Jean Pierre Melville), va anche notato come tutto si trasformi secondo la sua sensibilità, tanto da perdere un senso del passato quanto del futuro. Godard cercò di cogliere la realtà, fatta di strade, visi, silenzi, amore elettrico come un’energia che attraversa corpi e lo schermo. Ma più di chiunque Godard capì la profonda irrazionalità che irrompeva nel reale stesso, impossibile la filmare in modo fenomenologico. In Fino all’ultimo respiro i sussulti, il montaggio discontinuo e aritmico, gli improvvisi abissi emozionali sono quelli della vita stessa, che si fa cinema universale e senza tempo.
Pochi giorni fa ci ha lasciati un regista importante, Kobayashi Masahiro, fautore di un cinema personale, umanista e fuori dagli schemi che sto scoprendo soltanto ora. Ieri sera ho visto il suo Bashing (2005) e sono rimasta molto impressionata dalla bravura del regista, dal suo amore nei confronti dei personaggi e dalla condanna senza compromessi di una società fredda e dura. Il film è girato a basso costo, ed è sorprendente come Kobayashi sia riuscito a trasformare i limiti in sfide espressive. Nel raccontare la storia di Yuko, una ragazza emarginata e brutalizzata dalla comunità a causa del suo impegno come volontaria in Iraq (“sei un’egoista, perché non ti sei preoccupata di aiutare il tuo paese? Sei una vergogna per l’intero Giappone”), Kobayashi si affida a poche scene isolate e trasforma elementi ordinari in veri e propri oggetti-emblemi della sua condizione di perseguitata (oltre che straordinari strumenti narrativi). Ad esempio le scale del condominio, che la ragazza sale e scende di corsa mentre la macchina a mano la segue di spalle o la accoglie frontalmente. Queste scale diventano un luogo d’angoscia: ogni nuova rampa lo spazio di un possibile agguato. Ad ogni piano, immerso nell’ombra, temiamo per Yuko, mentre la regia di Kobayashi possiede un’urgenza ansimante, sembra quasi suggerirle “corri!”. Gli stacchi veloci del montaggio costruiscono tensione fino all’arrivo, liberatorio, alla porta di casa. Un altro elemento: il sacchetto di plastica che contiene il cibo appena acquistato. Ogni volta che Yuko torna a casa con il sacchetto, viene aggredita o insultata. L’apparizione del sacchetto provoca quindi un’immediata risposta emotiva da parte dello spettatore: paura, tensione. Kobayashi è un regista che coinvolge il suo pubblico fino in fondo; la visione non è mai passiva ma ci obbliga a “sporcarci”, a partecipare emozionalmente e moralmente. Estremamente bello è l’uso che fa del primo piano: nonostante l’osservazione sia ravvicinata, c’è sempre un pudore, una delicatezza rispettosa nei suoi close-ups, quasi delle carezze sul volto di Yuko. A differenza di tanti primi piani del cinema contemporaneo, pronti a sfruttare i propri personaggi fino all’abuso, il regista è protettivo, colmo d’amore. L’immagine diventa un rifugio intimo per Yuko, un segmento di realtà dove potersi finalmente abbandonare. Le dissolvenze incrociate, utilizzate spesso nel film, hanno una funzione tutta interiore: sono transizioni sui pensieri di Yuko. Infine, come mostrare allo spettatore un volo aereo, quando il budget è così basso? Kobayashi trova una struggente soluzione poetica: sentiamo solo il suono del volo mentre il viso di Yuko accenna un timido sorriso. Bashing è un film splendido e implacabile sulla cattiveria che l’umanità è in grado di infliggere, e su come un’anima pura possa reagire. Mi viene in mente un verso di William Blake: “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.
***** Vuoto amoroso e distillata disperazione nel caos del quartiere di Chungking. Il “poliziotto 223” (Takeshi Kaneshiro) non si rassegna all’abbandono; la sua vita corre sul filo del telefono – una “voix humaine” che ha perso l’interlocutore. Amei, la sua ragazza, lo ha lasciato: e non bastano dozzine di lattine di ananas per placare la voragine interiore che lo inghiotte. 223 è giovane e ingenuo, quasi un germe estraneo nell’automatismo di notti inquiete e di un fluire di corpi nelle strade, tra crimine, luci al neon, bar dove consumare alcol e solitudine. L’incontro con una sconosciuta (Brigitte Lin) è un “lunghissimo brivido”: il ragazzo non lo sa, ma in quel momento anche vita e morte si confondono, rincorrendosi nei vicoli, tra la folla, là dove la passione esplode e fugge. “C’è una canzone che dice: Il sole che sorge fa finire l’amore. Era esattamente quello che speravo accadesse”.
La macchina da presa scivola e si sposta su nuovi personaggi. Si sofferma sul “poliziotto 663”, tradito dalla sua fidanzata hostess e immerso nella tristezza di un quotidiano vulnerabile e velato di rimpianto. 663 (un magnetico Tony Leung) fa dell’assenza la sua compagna malinconica: ogni giorno, nella sua abitazione, torna a rivivere nella memoria i momenti vissuti con la donna perduta; piange dignitosamente insieme agli oggetti, li consola, li umanizza. Nulla sembra avere più alcun significato se non in relazione alla sua perdita: “Quando un uomo piange basta un fazzoletto. Quando a piangere è una casa, ti tocca fare un sacco di fatica.” Ma un giorno 663 si accorge di Faye (Faye Wong), la ragazza del fast food che si è innamorata di lui. Faye è uno spirito leggero, dall’allegria folle e un po’ clownesca; i suoi capelli corti di ragazza, i grandi occhi spalancati sul mondo e sull’amore ne fanno un’anima sperduta e giocosa sullo sfondo di una città in corsa. In un bellissima scena in time-lapse, Wong Kar-wai isola e cristallizza il sentimento di Faye per 663: un’adorazione silenziosa mentre intorno tutto scorre.
Non sono mai riuscita a comprendere perchè Wong Kar-wai abbia spesso suscitato critiche, tra cui l’essere troppo “occidentale” ed estetizzante. Wong Kar-wai è un regista di metropoli, ed è chiaro che il suo linguaggio aderisce al suo mondo, in cui i contorni tra le cose – così come tra le culture e le espressioni – perdono nitidezza per farsi mutevoli e veloci. La regia è elettrica, una corsa per afferrare il naturale fluire del caos e della vita, cogliendone l’intima e fragile bellezza. L’accusa di virtuosismo estetico è ancora più ingiustificata: Hong Kong Express è stato girato quasi interamente camera a spalla, e la visione di Wong Kar-wai è esattamente lo specchio del suo sentimento. Il regista mescola suoni e sensazioni, velocità e cromatismi intensi pari a certi sconvolgimenti del cuore. In Hong Kong Express, Wong Kar-wai è il regista dell’amore.
***** Nel 1984 il regista Stephen Frears riceve la proposta di portare sullo schermo una sceneggiatura di Hanif Kureishi, lo scrittore della Londra multietnica e struggente di quegli anni. Con un budget di £600,000, Frears inizialmente pensa a un prodotto per la tv: “a chi può mai interessare la storia di un pakistano gay che gestisce una lavanderia?” Il film invece viene realizzato per il cinema – è il primo film della casa di produzione Working Title – e diventa un manifesto del periodo: le inquietudini di una Londra “che uccide” (parafrasando un altro titolo di Kureishi), la solitudine giovanile in un paese pesantemente condizionato dal thatcherismo (come accusavano, negli stessi anni, le canzoni degli Smiths), gli episodi di intolleranza ma anche, allo stesso tempo, la resistenza dell’amore nella sua innocenza, sono tutti qui; nella brevità di un’ora e quaranta minuti Frears rinnova il cinema inglese con una freschezza immediata e poetica.
Le sue scelte narrative e stilistiche – il realismo degli esterni, le luci al neon, il senso ludico che attraversa uno stato d’animo “sull’orlo della catastrofe” – fanno di My Beautiful Laundrette un oggetto unico, un film realizzato quasi in un dream state, una condizione onirica oscillante tra disperazione e desiderio ostinato di futuro. Sono sufficienti i primi minuti (con i suoni “elettronici” di bolle di sapone e un effetto-centrifuga che trasforma lo schermo in lavatrice) a immetterci nelle atmosfere tra finzione e realtà di un’opera che cerca la verità nella stilizzazione. Dopo i titoli, Frears ci conduce immediatamente tra la quartieri e palazzi (il film è tutto girato nel sud di Londra) ma cerca di cancellarne l’asprezza con uno sguardo tra il sogno e l’indefinito.
Due ragazzi, Omar (Gordon Warnecke) e Johnny (Daniel Day-Lewis) – l’uno pakistano ingabbiato nei codici e leggi della famiglia, l’altro coinvolto con un gruppo di balordi “nazi” in cui cerca un’illusione di identità e appartenenza – si ritrovano per caso dopo diversi anni. Il loro incontro, girato con un’apparente semplicità in cui Frears tutto cura, tutto allestisce meticolosamente (lo sguardo tra i due, il sorriso improvviso e infinito di Omar, il muretto su cui Johnny si appoggia fingendo noncuranza, il conflitto tra personaggi inglesi e pakistani sullo sfondo, i primi piani occhi negli occhi) è forse una delle sequenze d’amore più intense mai girate. Improvvisamente è come se il resto del mondo scomparisse; Omar e Johnny, l’uno davanti all’altro, appaiono felici, completamente conquistati l’uno dall’altro.
Da questo momento il film procede in totale, assoluta complicità con la coppia: il rapporto appare bizzarro ma condotto con piena naturalezza. Johnny “il duro” si lascia guidare da Omar in un gioco servo/padrone consensuale in cui i due trovano fede reciproca e rimedio a un passato doloroso. Omar ordina, Johnny obbedisce: ma il piacere che entrambi provano è tangibile; l’allegria nel sovvertire le regole, l’erotismo che scaturisce da ogni minimo sfioramento elettrizzano lo schermo. Per un giovane di allora, non ancora abituato al queer cinema, assistere a questo amore fuorilegge era entusiasmante. L’omosessualità viene affrontata “ignorandone” la sostanza problematica: semplicemente, Frears mette in scena l’amore. Il primo bacio tra i due ragazzi è talmente casuale che la sua anticlimaticità, paradossalmente, lo rende indimenticabile.
La South London di My Beautiful Laundrette è allo stesso tempo dura e dolcissima; Omar e Johnny trovano accoglienza nel buio o tra le luci colorate di lampioni, insegne luminose, piccoli club notturni. Insieme decidono di gestire “la più bella lavanderia di Londra, il top della gamma” ripulendo una piccola attività in rovina e occupata da una varia umanità di sbandati, artisti, poeti e innamorati. C’è la volontà, da parte di Omar e Johnny, di immaginare un’alternativa: un sogno di pulizia, lavatrici, ordine e colori pastello. Un non-luogo ideale costruito in un quartiere povero e malfamato, attraversato da scorribande di punks e criminalità pakistana in eterno conflitto.
Frears crea scene di bellezza memorabile: l’amore consumato il giorno dell’inaugurazione mentre suona Il valzer dei pattinatori; le riunioni a casa dello zio di Omar (Saeed Jaffrey), in un delirio di superstizioni, riti familiari e iniziazioni; le immagini delle case popolari londinesi, degradate ma accese da bellissimi graffiti in cui si concretizza sia la protesta quanto il desiderio di un oltre migliore; i dialoghi tra Omar e suo padre (Roshan Seth), un intellettuale pakistano vinto dalla vita, dall’alcol e “annientato dall’Inghilterra”, ma ancora fortemente convinto della necessità di un’educazione e di una cultura (“Cosa fate qui? Tu e Johnny dovreste andare al college…”).
Il film ebbe un enorme successo. Il suo potere fu non solo di catturare ma di definire lo stato d’animo di un’epoca, tra rabbia, infinita malinconia e il sorriso insopprimibile della giovinezza. Ad accrescerne la magia contribuì una colonna sonora fatta di elettronica, rumorismi synth (ottenuti con sintetizzatori Moog) e melodia in forme personalissime; i titoli di coda la attribuiscono a un fantomatico “Ludus Tonalis”, pseudonimo di un giovane Hans Zimmer.