EIGHTH GRADE di Bo Burnham

Eighth_Grade****
Il regista di Eighth Grade, Bo Burnham, ha solo 27 anni ed è un popolarissimo youtuber statunitense. Questa formazione naturale all’interno dei media tecnologici ha fatto di lui un narratore spontaneo, del tutto a proprio agio con l’immagine contemporanea. Burnham è perfettamente consapevole del valore dell’immagine tanto come mezzo interpretativo che esibizionistico: Eighth Grade, pur nella sua apparenza ludica, contiene immagini di valenza filosofica, “rappresentazione della rappresentazione”.
Allo stesso tempo Burnham possiede una memoria chiara della condizione al limitare tra pubertà e adolescenza; il suo film non è diretto con il distacco dell’adulto che racconta la giovinezza, ma con l’incandescenza emotiva di chi ancora avverte intatto il sentimento di quegli anni.
Per questo motivo Eighth Grade è doppiamente interessante: l’approccio linguistico e la volontà di praticare un personale realismo ne fanno un’opera nuova e personale. L’adolescenza non è né ricordo, né vagheggiamento, ma uno stato d’animo presente che Burnham vuole riprodurre in immagine. E non è un caso che la produzione sia della A24, tra le compagnie più brillanti e attente nella creazione di un cinema nuovo.

Per molti anni il cinema ha accantonato la giovinezza, se non per sfruttarla come metafora (dal teen horror alle saghe sovrannaturali che associano l’adolescente al vampirismo o ad altre creature “malate” e in contatto con la morte); la protagonista di Eighth Grade, Kayla (Elsie Fisher), è invece quell’adolescente che la società adulta contemporanea ha smesso di osservare. Burnham ci concede il privilegio di accedere alla sua realtà, di spiarne la fragilità nel difficile processo di costruzione di una identità; e lo fa servendosi dei mezzi social che per la ragazza costituiscono un illusorio, ingannevole specchio dell’io. Vi è una duplice consapevolezza in Kayla: quella di essere oggetto e soggetto di una rappresentazione del sé, obbligato a manifestarsi attraverso codici estremamente rigidi (dal selfie alle convenzioni verbali). Burnham elabora, attraverso sequenze di grande bellezza, la sofferenza del coming of age e la sua disperata solitudine: il volto di Kayla sovrimpresso a mille schermi in cui compaiono variazioni del proprio io (da instagram a snapchat a youtube) restituisce, con grande desolazione, una verità che annaspa tra i riflessi dell’apparenza.

Il giovane regista sa come maneggiare il materiale a disposizione, facendone un teatro (di cui egli stesso è stato protagonista) ready-made, approntato con gli strumenti del quotidiano giovanile. E ciò che emerge, con brillante autenticità, è il disagio di Kayla, la sua palpabile emozione nell’avventura crudele del vivere. Burnham ci mostra anche un’esercitazione scolastica volta a preparare i ragazzi all’eventualità di una sparatoria: l’orrore è integrato come ordinaria casualità, ed è difficile assistere a questa scena senza provare, da adulti, un senso di colpa. Anche il sesso è una scoperta brutale: dozzine di siti e tutorial spiegano a Kayla cos’è il rapporto orale, e la bravura del regista sta nel restituirci con ironia il suo disgusto incredulo. Ma l’occhio di Burnham è sempre partecipe, attento, delicato: i suoi giovani sono osservati con rispetto, così come è palpabile la sua gioia vera nel rivelarci la forza della ragazza e l’incontro con un altro simile, familiare.

Eighth Grade
è tra i più bei ritratti di una giovinezza finalmente ritrovata dal cinema: la composizione dell’inquadratura, il montaggio e la perfetta colonna sonora colgono l’anima di Kayla nel suo colore tremulo e luminoso. Meravigliosa anche la figura del padre (un bravissimo Josh Hamilton), a sua volta alle prese con un contatto impossibile, con una comunicazione fatta di ferite e conquiste. In Eighth Grade va in scena l’amore, in tutta la sua semplicità nuda e infreddolita dalla durezza del tempo.

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