COCO di Lee Unkrich

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Coco
è un film che vola sul filo del compromesso: il materiale narrativo appartiene alla scuola Disney più conservatrice e manipolatoria (l’ossessione della famiglia-cellula centralizzante e onnicomprensiva, in cui tutto si risolve); eppure la Pixar, fedele al suo ideale secondo cui la “storia” è la direttiva fondamentale cui tutto il film deve piegarsi ed obbedire, riesce ad elevare la banalità del plot magnificandolo attraverso un’animazione plurisignificante, fantasmagorica e “aperta”.
A differenza della casa-madre Disney, la Pixar ha sempre cercato di uscire da una limitante autoreferenzialità per trovare ispirazione in un immaginario “ampio”, esteso temporalmente e spazialmente. E in Coco si sovrappongono memorie e suggestioni visive che trasformano il film in un viaggio tanto trasversale quanto trascendente: la traccia più forte è quella del surrealismo americano di Busby Berkeley, non solo con The Gang’s all Here (1943), film di escapistica stravaganza incentrato su un folclore fantastico, il cui compito era di distrarre il pubblico dalla guerra (Berkeley oltrepassò ogni limite e si fece beffe della censura tuffando Carmen Miranda in una fallica esplosione di banane); ma anche il Berkeley meno “camp” e più raffinato: un tripudio di astrattismi, florilegi compositivi, studio di silhouettes ed effetti di luce e colore, su base spaziale rigorosamente matematica e geometrica.

Coco rincorre l’ideale avanguardistico di Berkeley, rendendolo accessibile e intrecciandolo con i generi classici americani: dal musical in stile Carioca (1933) al film spirituale tipico degli anni ’30 e ’40, sui cui aleggiava il fantasma della morte come “ritorno” familiare (da Heaven Can Wait, 1943 a The Ghost and Mrs Muir, 1947, in forme diverse). Nella sua sfrenata ambizione visiva, Coco abbraccia anche il musical alla Baz Luhrmann (le immagini de Il Grande Gatsby, 2013, balenano durante la sequenza della festa).
Ma Coco è anche l’innocenza chapliniana – nei temi della povertà, dell’avventura, del tentativo di elevarsi dalla propria condizione, quanto nella comicità corporale e slapstick.
Impossibile, inoltre, ignorare una presenza burtoniana che aleggia ora aerea (con la leggiadria malinconica de La Sposa Cadavere), ora più concreta e ingombrante (come in Beetlejuice). I vivi e morti, il travestimento, l’impossibilità di far comunicare i due mondi: temi ricorrenti della poetica di Burton e che trovano, in un giovane “diverso” (Lydia in Beetlejuice, Victor in Corpse Bride e ora Miguel in Coco) il punto di contatto tra le dimensioni.

Coco allestisce un ponte di fiori che è quasi una Scala al Paradiso (1946) e saccheggia spudoratamente, sul versante dell’animazione più recente, Il Libro della Vita (2014) prodotto da Guillermo del Toro e diretto da Gutierrez, omaggio al “Día de Muertos” e altra danza fantastica tra il buio e la luce, il corpo e lo spirito. Infine ci mostra una vecchia/bambina (come la Sophie de Il Castello errante di Howl, 2004, di Miyazaki).
C’è talmente tanto cinema in Coco da farci quasi dimenticare l’opprimente premessa disneyana della famiglia come mattone primario e indiscutibile dell’ordine sociale: un mattone che la Pixar incrina, mettendo a nudo la rabbia di Miguel di fronte alla sua chitarra fatta a pezzi.

 

2 thoughts on “COCO di Lee Unkrich

  1. Visivamente e registicamente penso sia il più bel film Pixar di sempre: una gioia per gli occhi e per il cuore! La storia patisce un po’ il suo dover essere davvero per tutti i tipi di pubblico, e si sa, accontentare tutti è quasi impossibile. Ciò non toglie che sia stato uno dei miei film preferiti del 2017 🙂

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