LOVING di Jeff Nichols

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E’ una stagione fervida per il cinema americano: l’America ripensa se stessa, il proprio passato, e allo stesso tempo riflette sul proprio cinema e i suoi linguaggi. Dopo il poetico Moonlight, anche Loving di Jeff Nichols scardina, in forme differenti, i modi narrativi convenzionali del “cinema sociale”: Loving registra l’esistenza sommessa e luminosa  di una coppia mista nell’America degli anni ’50 e ’60, quando sentimenti e intolleranze coesistevano in una sorta di naturalità istintiva e brutale.

Richard Loving, cresciuto all’interno delle comunità nere, possiede una percezione spontanea dell’uguaglianza tra gli esseri umani. Di fronte alla condanna sociale reagisce con una sofferenza innocente, uno stupore quasi infantile: ed è straordinario il grado di sensibilità e la mimesi corporale con cui Joel Edgerton interpreta Richard. Più ancora della meravigliosa Mildred di Ruth Negga, dagli occhi pensosi e opachi d’incertezza, Edgerton incanta: egli “diviene” Richard, il carpentiere semplice e operoso, un uomo dal sentimento puro. Il viso di Richard Loving è simile ad un paesaggio naturale, agli acri di terra silenziosa che ha comprato per costruirvi una casa e una famiglia. Sul suo sguardo cala l’ombra di fronte ad un’ingiustizia che non comprende: “non è giusto”, “non facciamo del male a nessuno”. Richard è un’anima talmente integra da non nutrire mai un dubbio sulla propria scelta.

Il regista Jeff Nichols apre il film con una sequenza inedita e straniante: una gara in stile “gioventù bruciata”, ma nella realtà parallela e alternativa di una povera contea della Virginia. Richard e Mildred ne fanno parte: il loro amore è un’incolpevole anomalia del tessuto sociale, ma anche un’immagine del futuro.
Nichols è bravissimo nel ricreare il quadro di un’epoca: sceglie visi alla Diane Arbus, documenta esistenze povere, avvezze alla durezza del vivere. Il lavoro nei campi, le nascite tra secchi d’acqua e asciugamani, i bambini che giocano nelle strade: nel cinema di Nichols c’è un’asentimentalità fotografica, un nitore realista del tutto anti-hollywoodiano.

Dato il materiale a disposizione, il regista avrebbe potuto creare un melodramma enfatico, scatenare sentimenti forti nello spettatore, rabbia e indignazione: invece, fedele ai propri personaggi, sceglie il racconto del quotidiano, sottrae incandescenza, si sofferma sulla semplicità di una vita che resiste: non consuma, non brucia, ma persegue il proprio obbiettivo. Nella sofferenza muta dei Loving, nella loro intimità quieta vi è un carattere sacrale, al punto che percepiamo la violenza degli scatti del fotografo (Michael Shannon). Quella di Richard e Mildred non è una battaglia per la Storia, ma un intimo desiderio di vita.

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