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Amo molto quando i “grandi vecchi” del cinema disattendono le aspettative, realizzando film che eccedono le formule in cui si tende a racchiuderli; lo ha fatto Malick con Knight of Cups, talmente infinito ed irregolare (sul piano tecnico quanto dell’immaginario) da capovolgere la stretta definizione di “regista della natura”; e lo fa Eastwood con Sully, un film che non solo compone in armonia le contraddizioni del suo autore, ma anche le contraddizioni d’America, inserendole in una complessa struttura spazio-temporale e mostrandoci, in un gioco di ipnotiche ripetizioni, le possibilità interpretative della visione.
Eastwood rivela un pensiero sfumato ed in grado di farsi completamente umanista. Sully celebra il trionfo della collettività: sebbene l’attenzione sia focalizzata sul singolo, su un’umana fragilità che però non impedisce un’azione straordinaria, tale eroismo può dispiegarsi solo grazie ad una base corale. In America, ci dice Eastwood, la forza individuale nasce dal contributo collettivo, da ogni piccola partecipazione dal basso, scintilla della forza propulsiva; una visione della collettività che fa del regista, paradossalmente, tra i più “progressisti” artisti americani. Sully è il ritratto di un Paese in cui ogni individuo – senza distinzione di età, colore, ceto sociale – è la cellula su cui erigere una forza operosa e vincitrice.
E come il comandante Sullenberger rifiuta l’individualismo e celebra il tutto, Sully non è un’opera snobisticamente autoriale in senso personalista, ma un film in cui viene rivendicato il valore della Storia: si colloca nell’arco della grande storia del cinema di Hollywood e porta su di sé i segni del tempo, dei grandi classici (Ford, Wellman, Wyler); è artigianato nato dall’esperienza, dal cinema vissuto e amato come un destino; un cinema che canta l’amore per l’America.
Sully è strabiliante come riflessione sulla visione: Eastwood sovrappone più piani narrativi – il sogno, il ricordo, la ricostruzione tramite il pensiero razionale. L’evento, visto da più sguardi, assume connotati differenti: le componenti d’orrore pulsionale negli incubi di Sully, l’emozione viva del ricordo, la ricostruzione algida e disumana della commissione d’inchiesta. Quando vengono mostrate le simulazioni, depurate d’ogni emozione umana, calcolate in base a meri dati numerici, è come se Eastwood combattesse per un cinema meno digitalizzato, meno finto, per riportarlo sulla terra e ricolorarlo di emozione terrena: “adesso facciamo sul serio” reagisce il comandante dopo aver assistito all’umiliazione delle ricostruzioni, in cui gli uomini agiscono come robot.
Eastwood è indubbiamente un grande autore e un film come Sully, che destruttura il tempo e lo spazio inserendoci in una sorta di “coazione a ripetere” cubisticamente differente a seconda della prospettiva, lo conferma come un vero filosofo del cinema. Basterebbe quell’inizio a sorpresa, che crea uno “spostamento” destabilizzante in chi guarda, a dimostrare la complessa profondità del suo pensiero. Ma Eastwood, come Ford, è un artista pragmatico e anti-intellettualista: a lui interessa raccontare l’uomo e la collettività, rendere eterna la storia, perpetuare la leggenda attraverso il cinema.