Un film curioso, Demolition: in quanto irrimediabilmente datato. Già visto e superato, tanto è un prodotto che attinge al secolo scorso: non sul piano formale quanto su quello delle tematiche – più che cinematografiche, letterarie.
Demolition è la versione in immagini, e estremamente banalizzata, delle problematiche sull’identità, sull’io scisso, sull’emergere di una latenza inconscia che hanno contraddistinto il romanzo del ‘900.
Un evento improvviso determina lo scatenamento di un’urgenza identitaria fino a quel momento rimasta sul piano pulsionale, repressa ed indistinta: è questa la storia di Davis, impersonato diligentemente da Jake Gyllenhaal, ma senza l’elettricità di un’interpretazione in grado di celare, nasconde o rivelare. La trasformazione di Davis, i suoi pensieri, l’insoddisfazione, la maschera pirandelliana, il suo “uno, nessuno centomila” esploso sotto il peso di un evento drammatico, sono semplificati e offerti dal regista Jean-Marc Vallée in tutta la loro evidenza; e di certo la confessione diaristica, l’espediente epistolare non hanno risonanza densa e poetica (la lezione di un Proust o di uno Svevo sono lontanissime), ma sono semplici strumenti per rendere il pubblico partecipe – in modo chiaro, senza agitarlo troppo dalla comodità della poltrona – della rivolta interiore del suo protagonista.
Le lettere al customer service sono una forzatura di sceneggiatura e non una porta spalancata sull’inconscio, sulla potenza del ricordo o sugli alibi esistenziali che si incrinano. La crisi di Davis è una crisi ormai ben nota a lettori e spettatori, e Jean-Marc Vallée ce ne offre l’ennesima versione, con uno stile di ripresa indeciso tra l’immediatezza del vissuto e l’astrazione spirituale. Quella di Davis è la cronaca della “demolizione” del suo essere, su cui erigere una nuova libertà; Vallée sceglie la presa diretta del quotidiano, mobile, aerea, estremamente vitale, ma la spezza con intromissioni oniriche che offrono a chi guarda una semplice suggestione estetica, interrompendo il processo brutale e realistico di scarnificazione del personaggio. L’apparizione del “fantasma della moglie” è un’inutile simbologia, un ritorno del rimosso tra la colpa e la commozione.
Tutto è metafora, ma banalizzata, a partire dal titolo. Demolition è un film con velleità autoriali, ma troppo preoccupato che al suo pubblico giunga correttamente il messaggio.
Rieccomi! Questo regista ho deciso di mollarlo definitivamente dopo l’osceno e vomitevole Wild. Dopo averlo visto, mi sono convinto che Dallas Buyers Club sia stato un caso isolato nella carriera di questo regista, un successo dovuto più alla sceneggiatura stellare e al talento degli attori che a lui. Non mi stupisce quindi che anche questo Demolition si sia rivelato materia escrementizia.
Posso solo dirti che anche io considero Wild vomitevole, credevo di essere l’unica visto che lo salvano un po’ tutti… Questo è meno irritante, ma altrettanto fallimentare
Non siamo gli unici a disprezzare Wild: quando l’ho stroncato in un mio post – classifica (https://wwayne.wordpress.com/2016/06/05/i-10-film-che-ho-visto-con-quattro-gatti/), in molti mi hanno detto di averlo trovato altrettanto odioso. Perché Wild non è semplicemente brutto, è proprio odioso.
A mio giudizio la critica non ha avuto il coraggio di stroncarlo perché il regista veniva dal successo di Dallas Buyers Club, lo sceneggiatore è un romanziere di grido, la protagonista era una superstar e quindi a bastonare Wild i critici si sarebbero messi contro troppi pezzi grossi. Speriamo che almeno stavolta evitino di negare l’evidenza. Grazie per la risposta! 🙂
Non avevo letto la tua recensione, rimedio subito… Odioso è comunque il termine esatto. Grazie a te!