Di fronte all’ultima fatica di Michael Moore ho provato un certo sconcerto, dato dalla combinazione di più fattori: innanzitutto stupisce che un film così elementare sia proposto nelle sale italiane come evento (ma ormai il nome di Moore ha acquisito il prestigio di un titolo nobiliare che lo rende un privilegiato, nonostante le prove mediocri); secondariamente, c’è da domandarsi cosa abbia da offrire al cinema e alla società un film come Where to invade next. E’ necessario cercare di ridefinire il concetto di “documentario”, che negli anni passati ha racchiuso le produzioni più disparate, e chiedersi cosa sia rimasto della sua essenza originaria di “assenza di finzione” e riproduzione (pur con un filtro soggettivo) del reale.
I film di Moore vengono ostinatamente chiamati “documentari”, ma qui ci troviamo di fronte ad una produzione paratelevisiva che linguisticamente ripropone il vecchio, vecchissimo modello dell’intervista; conversazioni completamente messe in scena, preparate, provate, in cui anzi il reale viene ritagliato e manipolato per ottenere una determinata risposta nel pensiero dello spettatore. Questa Europa ideale e fiabesca, attraverso la quale Moore vorrebbe parlare dello stato delle cose in USA, è frutto di un collage mistificatorio e arbitrario di situazioni, personaggi (non persone: si tratta di veri e propri “attori” in quanto hanno uno script da esibire), porzioni di realtà estrapolate da un contesto più ampio, da una verità da cui Moore estrae elementi finzionali. Manca del tutto la ricerca di un equilibrio tra oggettivo e soggettivo: l’Europa che vediamo è in gran parte frutto dell’esaltazione propagandistica di Moore, per di più minata da un pessimo gusto folcloristico che renda appetibile il prodotto alle masse d’America.
Si pensi al quadretto riservato all’Italia: ci viene presentata con l’inevitabile accompagnamento al mandolino, visioni idilliache di spiagge e campagne al tramonto, e coppie che amoreggiano ovunque. In Italia, apprendiamo da Moore, i lavoratori sono pagati per andare in vacanza e fare bambini, lo stress non esiste, e le aziende sono felicissime di rinunciare ad ulteriori guadagni pur di vedere i propri operai soddisfatti. Chissà dov’è l’Italia della crisi, stritolata dal precariato, dai debiti e dalla pressione fiscale, priva di futuro e ripiegata su stessa; Moore sceglie piuttosto una coppia quarantenne (vedi foto) benestante e “very cool”che sembra uscita da Giovani si diventa di Baumbach (quello sì un film intelligente), anche un po’ ebete se vogliamo, immersa in una dimensione parallela fatta di riposo, ferie, sesso e lampade UVA.
Finito l’episodio italiano, che possiamo considerare emblematico di quanta realtà sia contenuta all’interno del film, passiamo agli chef e formaggi delle mense francesi, alle scuole finlandesi dove si impara senza studiare, alla Slovenia con le sue università gratuite, al Portogallo che ha depenalizzato le droghe e varie altre magie europee.
Moore decostruisce le condizioni di vita dei vari paesi per estrarne la verità che più gli piace, ignorando i contesti, e lo stato attuale di un’Europa dall’identità smarrita ed economicamente lacerata, ripiegata su nazionalismi e revisione del welfare.
Where to invade next è un concetrato di retorica, utopie pop, trivializzazioni sociopolitiche. Se talvolta i dati mostrati fanno davvero riflettere, la visione totale di Moore – che impone un costante artificio, un’invadente interpretazione, una costruzione divulgativa e un’estetica da sit-com – affossa qualsiasi valore analitico.Di fronte a questo “reale” manipolato e fantastico, il pubblico può esercitare il proprio bisogno d’evasione; quella di Moore è soltanto un’altra favola.