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In una stagione che ha visto il susseguirsi di numerosi documentari sul cinema – da Io sono Ingrid, a Il Mago, a Hitchcock/Truffaut, S is for Stanley si staglia come il più emozionante e coivolgente, perchè non è solo uno scrigno di ricordi per cinephiles, ma porta con sé tutta la forza emotiva del racconto, rivelato al nostro sguardo come al nostro cuore, della vita di un uomo e di un’amicizia che ha il carattere dell’eccezionalità.
S is for Stanley è un documentario nella sua accezione più autentica (in un periodo in cui con “documentario” si indicano svariati prodotti spuri), ovvero la ripresa di un dato reale attraverso lo sguardo soggettivo del regista; ma ha l’incedere di un romanzo.
Nel momento in cui Emilio D’Alessandro appare sullo schermo, con occhi lucidi e amore intatto, veniamo immediatamente catturati. All’epoca del primo incontro con Kubrick era solo un giovane tassista squattrinato; eppure tra i due si stabilirono subito le coordinate di un rapporto unico ed incrollabile: una comprensione fedele e silenziosa, e l’accettazione delle reciproche personalità, diverse eppure in grado di comunicare per affinità elettiva.
D’Alessandro si fece notare per la sua devozione, la precisione, la capacità di eseguire qualsiasi compito senza metterne in discussione la modalità e la natura. C’è in lui, ancora oggi, una purezza che certamente conquistò l’animo diffidente e tormentato del regista. Allo stesso tempo, il film ci concede un dono grandissimo – quello di poter guardare all’interno della residenza di Abbots Mead, e scoprire l’illusorietà della mitologia che circonda l’artista. L’immagine del genio isolato e reclusivo, sufficiente a se stesso, lascia il posto alla realtà di un uomo che non poteva fare a meno di una rete di fedelissimi collaboratori; un uomo spesso fragile, la cui vita sospesa tra impegni, ossessioni, manie, necessità, pianificazioni ed il peso di un talento artistico ed immaginazione ingestibili, rendeva la presenza di Emilio indispensabile.
Emilio possedeva quella calma, la resistenza, la forza fisica e la disponibilità affettiva e spirituale di cui Kubrick aveva bisogno per passare attraverso la difficoltà del quotidiano.
Nel periodo in cui Emilio gli è accanto, egli realizza i suoi film più importanti: da Arancia Meccanica sino a Eyes Wide Shut. Tre decenni che vedono Emilio impegnato in una serie di compiti via via più gravosi: dalla manutenzione delle auto, alla cura degli animali di casa (per i quali Kubrick nutriva un amore viscerale), dai rapporti con l’esterno, fino al lavoro sui set. Emilio divenne un membro della famiglia Kubrick, a costo di trascurare la propria.
Il regista, Alex Infascelli, si è basato sul libro scritto da D’Alessandro con Filippo Ulivieri, “Stanley Kubrick &Me”. Ma la sua bravura è stata quella di scegliere alcuni episodi dal fluire torrenziale del libro, e comporli in forma armonica. Infascelli riesce ad impremere continuità, movimento naturale al suo film, tanto che ci sembra di veder scorrere una vita intera; pochi aneddoti significativi si trasformano in emblematici e ci appare chiara la chiave d’amore alla base del rapporto D’Alessadro/Kubrick. Inoltre Infascelli articola in una struttura funzionale dal punto di vista narrativo, ed al contempo poetica, l’archivio di immagini, inserendolo all’interno dell’immediatezza del racconto di Emilio.
Passato e presente sembrano danzare insieme, e per un’ora e mezzo ci rendiamo conto che Emilio, la cui memoria è incredibilmente vivida, avverte ancora la presenza di Kubrick accanto a sé. “Ogni volta che squilla il telefono, penso ancora che sia lui”. E lo spettatore annega, tra malinconia e dolcezza.
Ho sempre detestato l’espressione “cinema al femminile”; eppure quando sono entrata nella sala, gremita di donne, per vedere La pazza gioia, ho dovuto fare i conti con un dato di fatto: il pubblico femminile cerca un cinema in cui ritrovarsi. Ha bisogno di personaggi che contengano quel tormento, quella complessità emotiva e psichica che spesso fatica a trovare un equilibrio. In fondo ciò che ci distanzia dalle due protagoniste Beatrice e Donatella è uno scarto quasi impercettibile: tutte le donne sono potenzialmente bipolari, matte, in balia del proprio corpo e delle implicazioni che questo comporta. Dalle sindromi premestruali, alle depressioni post-parto, alla menopausa, è impossibile sfuggire al corpo, alle sue punizioni ormonali, ai suoi umori lunari.
Davvero una sorpresa questo ottimo The Boy di William Brent Bell, un regista che chiaramente fa proprio il cinema del passato rileggendolo con sensibilità moderna e personale. Il film si innesta su un solco “storico” del genere, ne rappresenta un’evoluzione, e Bell è talmente bravo nel fare propri stili e immagini archetipiche dell’horror da aver reso quasi invisibile il suo lavoro reinterpretativo. E’ importante notare quanto The Boy sia un esercizio stilistico (niente affatto in senso negativo) sul cinema di Hitchcock, in particolar modo sul celeberrimo Psycho. William Brent Bell sembra averne studiato struttura, linguaggio e tecnica fino ad assimilarli in un codice linguistico proprio, che nel film viene utilizzato con naturalezza; come se l’obiettivo non fosse un passivo citazionismo, ma un processo di interiorizzazione, affinchè The Boy contenesse un “fantasma” hitchcockiano in trasparenza.
In To be or not to be (1942), un Lubitsch decisamente più avanti del proprio tempo ci mostrava Adolf Hitler nel mezzo di una Varsavia ancora pacifica, di fronte ad astanti stupefatti: un’immagine straniante di grande impatto comico e surreale.
Di fronte all’ultima fatica di Michael Moore ho provato un certo sconcerto, dato dalla combinazione di più fattori: innanzitutto stupisce che un film così elementare sia proposto nelle sale italiane come evento (ma ormai il nome di Moore ha acquisito il prestigio di un titolo nobiliare che lo rende un privilegiato, nonostante le prove mediocri); secondariamente, c’è da domandarsi cosa abbia da offrire al cinema e alla società un film come Where to invade next. E’ necessario cercare di ridefinire il concetto di “documentario”, che negli anni passati ha racchiuso le produzioni più disparate, e chiedersi cosa sia rimasto della sua essenza originaria di “assenza di finzione” e riproduzione (pur con un filtro soggettivo) del reale.
Arriva in ritardo, e direttamente in home video, il film Krampus di Michael Dougherty, premiato in USA da un buon successo di pubblico e da recensioni decisamente positive, fondate però su un equivoco critico: la stampa (d’oltreoceano e nostrana) sembra concorde nel ritrovare in Krampus quella matrice fiabesca, giocosa e allo stesso tempo orrorifica, del celebre classico di Joe Dante: Gremlins (1984). Un confronto, a mio parere, dettato da semplice pigrizia.
Sole Alto di Dalibor Matanic è stato giustamente premiato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard: perchè è davvero, letteralmente, un’opera che incarna “un certo sguardo”; un modo differente di fare cinema, e questa è la sua piccola rivoluzione. Matanic, regista croato, sceglie la via impervia del film con un disegno strutturale a tesi; dal quale, però, egli sviluppa un discorso poetico più che didascalico, e lirico piuttosto che moralistico. E’ una linea di confine complessa, quella su cui si muove Matanic: l’intenzionalità è scoperta, e la riflessione sull’odio interetnico, che va oltre la guerra dei Balcani, scorre in ogni inquadratura con la violenza della memoria rinnovata dal presente. Ma Matanic lascia grande libertà e respiro alle proprie immagini, e al contempo allo spettatore.