KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin Scorsese

Ho letto molte recensioni inacidite di Killers of the Flower Moon e ancor più spesso ho letto la frase “Non è il miglior Scorsese”. Ho visto il film, e ancora mi interrogo su cosa voglia dire questa frase. Forse, la necessità di incasellare un grande artista e incatenarlo agli stessi stilemi che lo resero grande e rivoluzionario, trasformandoli in “sistema” riconoscibile. Ma Scorsese è un uomo di cinema che non ha mai smesso di trasformarsi e sperimentare: la sua voglia di creare un linguaggio coerente con i tempi in cui viviamo è tra i lasciti più strabilianti della sua filmografia.
Killers of the Flower Moon contiene, scarnificati, molti elementi classici dello stile scorsesiano: i piani sequenza sinuosi, i dolly all’indietro, magnifici e rivelatori, le panoramiche a 360 disorientanti. E a livello narrativo, con la complicità della “maga” Thema Schoonmaker (proprio nell’accezione intesa da Truffaut), il racconto acquista una complessità temporale fatta di rapidi flashback, inserti, interruzioni, in un fluire dell’inconscio che racchiude in sé il passato e il futuro; così come sono presenti, nei dialoghi, stacchi che distruggono l’idea classica di campo-controcampo in una visione molto più composita e inafferrabile.

Il punto di vista del racconto è pluriprospettico nel restituirci una realtà che ci elude continuamente: i personaggi talora usano il flusso di coscienza, altre volte invece ci appaiono impenetrabili e opachi; i confronti serrati in interni avvicinano il nostro sguardo a volti indecifrabili, contorti dall’uso di luci contrastate. In particolare, Leonardo diCaprio (nei panni di Ernst Burkhart) ha spesso metà del volto in ombra: deformata dal male, intinta nel nero che ne altera i lineamenti. Ernst è un uomo vuoto e indefinito, ridotto dalla guerra a grumo di sensazioni e desideri privi di morale: l’amore e la morte sono coordinate intense quanto vaghe del suo mondo.
Lily Gladstone (Mollie), in un’interpretazione del tutto corporale, appassisce davanti ai nostri occhi, muore, rinasce, si piega come una spiga di grano nel vento, o diviene livida: il suo corpo è vittima della malvagità umana e ne porta scritti i segni. Dei suoi pensieri comprendiamo il dolore, lo smarrimento, la necessità dell’amore in una desertificazione razionale che la priva di riferimenti.

Con Killers of the Flower Moon Scorsese realizza il suo film più spirituale, ancor più di Silence: i paesaggi metafisici alla Wyeth sono il limbo cui sono confinate le anime; le visioni oniriche interpretano l’abisso interiore; mentre la ferocia primordiale ammantata di civiltà di De Niro/William Hale ci rimanda al male ineluttabile connaturato allo spirito dell’uomo.
Un film del genere, privo del gusto brillante della violenza, privo del piacere del sangue, ci lascia con un quadro impressionante e desolato del ciclico destino dell’uomo. C’è tanto presente rintracciabile nella Storia messa in scena da Scorsese, e di rado ho visto un film così narrativamente equilibrato e perfetto nei ritmi, nella costruzione psicologica dei personaggi (alcuni episodi hanno la poesia di un Edgar Lee Masters) e nel movimento temporale. La chiusa, bellissima, ci ricorda il piacere evocativo della rappresentazione. Killers of the Flower Moon rigetta l’eccesso, il sensazionalismo e la velocità per adottare un’estetica silenziosa e incorporea. Il cinema di Scorsese è divenuto un fantasma che cammina nella violenza del presente.

SILENCE di Martin Scorsese

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Scorsese legge Silence, di Shūsaku Endō, nel 1988. E’ un romanzo che lo turba profondamente e decide, dopo due anni, di acquistarne i diritti per una trasposizione cinematografica, ma non si sente pronto: la gestazione di questo progetto finirà con l’attraversare più di due decenni, nel corso dei quali il regista si sentirà costantemente inadeguato di fronte alla potenza del libro. Allo stesso tempo però il romanzo si sedimenta nell’animo del regista, lo accompagna, diviene la luce attraverso la quale egli realizza altri progetti; come afferma nell’intervista a Antonio Spadaro, “ho vissuto la mia vita attorno ad esso”.
Proprio con la stessa sensazione di inadeguatezza ci si deve accostare, oggi, al film: e non per mera, ipocrita reverenza, ma consapevoli della sua inafferrabilità, della sua complessità estetica quanto della riflessione profonda che è in grado di indurre nello spettatore “devoto”: e per devozione si intende una devozione al cinema, ma anche allo spirito dell’uomo. Perchè la grandezza di Silence risiede nel suo coraggio di mostrare, nella povertà spirituale del contemporaneo, il rapporto tra l’uomo e la fede: una fede che è sguardo sulle cose, forza al contempo rivelatoria e distruttrice.

Silence affronta le complesse problematiche che ruotano attorno alla fede non solo in prospettiva storica, calandosi nel Giappone del Seicento; ma lo fa in modo essenzialmente soggettivo, riportando, attraverso la figura di Padre Rodrigues, i tormenti, i dubbi, le elevazioni e le cadute che sono state del regista stesso. Scorsese, chierichetto da bambino e seminarista da ragazzo, abbandona l’idea di farsi prete e sceglie il cinema: ma, come racconta nel documentario A Personal Journey Through American Movies, non vede poi molta differenza tra la chiesa e la sala cinematografica: due luoghi in cui vi è sempre, anche quando non è esplicita, una ricerca di spiritualità.

Silence è un film sulla Grazia, sulla capacità di vedere e riconoscere la Grazia come velo che avvolge le cose anche in quello che è un apparente “silenzio” divino: il viaggio attraverso l’esistenza è sempre un viaggio spirituale, cosa che l’epoca contemporanea sembra aver dimenticato.
Scorsese ce lo ricorda, ci racconta di creature umili disposte ad abbandonarsi alla sofferenza e alla morte pur di non perdere il loro credo spirituale, la fede che si concentra, nella disperazione di un’esistenza di stenti, in un oggetto-feticcio, un grano di rosario, una croce, una promessa di Paradiso. Illusione o forza liberatoria? E’ una domanda che ci si pone continuamente di fronte a queste anime che ci appaiono bellissime nel loro martirio.
Scorsese, da sempre affascinato dalle vite dei santi e dalle loro rappresentazioni, ripercorre iconograficamente Dreyer, Rossellini, Pasolini, Cavalier. Concentra, in una sequenza di inquadrature che si imprimono nella mente, tutta la sua suggestione, l’amore e la devozione di ragazzo per il volto di Cristo: un volto che oggi, con lo sguardo esperto dell’adulto, si sovraimprime di significati ma non perde la sua capacità di smarrire e far vacillare l’anima umana.

Silence mette alla prova il credente quanto l’ateo: è un film che scuote l’essere e rimette in discussione i pilastri spirituali, di qualunque tipo essi siano, scelti per erigervi l’esistenza. Scorsese non offre risposte ma racconta un’esperienza, espone dubbi, racconta l’incertezza, il mistero, allo stesso tempo come tenebra e come luce. Lo fa con i mezzi del cinema, quei mezzi che hanno fatto di lui il più grande regista americano vivente e il più grande storico del cinema: in Silence squarciano lo schermo visioni di Ozu, John Ford, Sam Peckinpah, Ingmar Bergman.
Tra i più umili registi del mondo, Scorsese ha sempre dichiarato di nutrirsi di ogni tipo di cinematografia per “arricchire la sua tavolozza” e perché “c’è così tanto da imparare”: in Silence è come se ogni film visto riemergesse per comporre un nuovo, straordinario affresco che mescola generi, stili ed epoche; e che ci illumina con composizioni dell’inquadratura classiche e moderne, fotografia di ascendenza pittorica, immagini ancestrali rubate all’inconscio e al sogno, cariche di inesprimibile potenza figurativa.

Scorsese parla della fede attraverso il cinema, perchè ci sono cose che la parola non può dire, ma l’editing delle immagini, la loro sequenza, può far scaturire nel pensiero di chi guarda. Padre Rodrigues, un meraviglioso Andrew Garfield, contiene in sé purezza e orgoglio, innocenza e colpevolezza. Il suo percorso magnifica le contraddizioni, il buio dell’esperienza umana. Mentre Kichijiro, come afferma Scorsese stesso, è la sua guida: lo conduce attraverso l’errore, innesca un duro processo verso la salvezza.
Silence è, per il pubblico contemporaneo, ciò che i romanzi di Proust e Joyce furono in letteratura per i lettori del primo ‘900: un’opera che non vuole un pubblico passivo, ma chiede attenzione, riflessione, in un viaggio magmatico attraverso il dolore, la bellezza e la grazia dell’esperienza umana.