LE STREGHE di Robert Zemeckis

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La visione di Le Streghe è stata difficoltosa: spiace vedere uno spreco di talenti – dalla sublime visione artistica e filosofica di Zemeckis alle doti interpretative di Anne Hathaway e Octavia Spencer – livellati in un prodotto usa-e-getta per famiglie e società progressiste, perfettamente aderente al nuovo revisionismo ideologico che riscrive personaggi ed eventi in base a percentuali etniche o di genere ed elimina asperità perturbanti.
Il nuovo cinema americano, già compromesso con modi e standard televisivi, è bloccato in un’afasia estetica e ideologica che raggianti production design e un abuso di computer grafica non riescono a camuffare. Zemeckis, con Benvenuti a Marwen, aveva compiuto un tentativo lirico/poetico di straziante bellezza volto a cogliere la crepa salvifica, il volto catartico dell’arte come espressione viva del sè e trasfigurazione del dolore del reale.
Con Le streghe, purtroppo, la grande maestria del regista americano – presente in poche sequenze di pura bellezza, fantasmi di americana che solo Zemeckis sa mettere in scena con tanta malinconia – è ricondotta all’interno di un cinema disciplinato, controllato, vera gabbia di un immaginario da sedare. Si priva il pubblico più giovane del diritto ad avere paura, riducendo la strega a fantoccio grottesco; mentre la scrittura monodimensionale dei tre piccoli protagonisti esclude l’ombra, l’esitazione, il terrore.

Ignorando la poetica di Dahl, che rispettava troppo i bambini per ovattarli in finzioni rassicuranti, il film di Zemeckis circoscrive il nero entro limiti esigui per rimuovere lo specchio oscuro del reale. Il romanzo amplificava, attraverso la mostruosità della strega, il dolore del vivere e la crudeltà dell’adulto; Le Streghe, al contrario, confeziona una facile dimensione autoassolutoria. La paura non è più un sentimento da temere ma il sottoprodotto ludico di un film-rollercoaster (e lo sa bene Zemeckis, esplicitandolo nella sequenza finale), emblematico di quella “disneyficazione” del mondo temuta da molti autori e registi.

Le Streghe è pura distrazione, condotta con i mezzi mediocri dell’entertainment: in questo caso gli effetti speciali, tra l’altro particolarmente scadenti. Non è possibile appassionarsi alle smorfie di tre topi in cgi, e non basta la bravura di un regista che tenta disperatamente di dar loro vita attraverso soggettive, piani sequenza e tecniche volte a cercarne l’umanità. Ottusi, fastidiosi, pronti a stemperare le emozioni nella battuta o in una mimica animata deplorevole, i tre topi sono una versione aggiornata dei Chipmunks: ma almeno, nel caso del film di Tim Hill, non c’era alcun alibi letterario. Si apprezzava il coraggio della stupidità dell’operazione in tutta la sua dichiarata evidenza.
Analogamente, la Hathaway non riesce ad incutere terrore: malgrado la sua abilità nel prodursi in virtuosistici monologhi in cui la voce è modulata in toni e accenti volubili e inquietanti, la performance è schiacciata in una post-produzione che deforma l’attrice – ma non troppo – assecondando un mercato che non vuole scalfirne la bellezza. Il brutto non esiste più a Hollywood, nemmeno nell’horror; l’osceno corporale è bandito in nome del primato estetico.

BENVENUTI A MARWEN di Robert Zemeckis

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Zemeckis resta, nel panorama americano, un grande regista incompreso. Autore di opere celeberrime, ha conosciuto in tempi recenti un raffreddamento tanto del pubblico quanto della critica; è come se si fosse interrotta la “comunicazione” tra film e fruitore, e la cosa non stupisce in quanto Zemeckis è tra gli autori più impegnati, difficili nella Hollywood contemporanea. I suoi ultimi film hanno sempre “tradito” le aspettative: da Flight (che inizia come un mirabolante action per poi divenire una riflessione etica e testo antropologico) a The Walk (uno degli studi più appassionati sull’abisso del cinema, e l’emozione creatrice) fino a Allied (sofisticata operazione di decostruzionismo dei classici). Zemeckis, in poche parole, è colpevole del tradimento dell’entertainment a favore di un cinema che analizza se stesso incessantemente, tanto nei linguaggi che nel suo valore psicoanalitico e sociale. La sua filmografia è sempre stata un ponte tra passato e futuro: ci parla di un classicismo trasformato, annebbiato dal tempo, ricodificato e proiettato in una visione nuova mediante la tecnologia.

Benvenuti a Marwen è, come il suo protagonista, un’opera di immensa fragilità: toccarla in modo grossolano, avvicinarsi senza sensibilità, la porta a “scomparire”: il film richiede un’aderenza emotiva, una disponibilità dello spettatore ad attraversare un sentiero interiore quasi abbandonando lo spirito razionale. Solo in questo modo è possibile vivere completamente il viaggio nel cuore e nel pensiero di Mark Hogancamp, artista segnato da un trauma che permea ogni fibra del suo essere. Zemeckis sa che l’esperienza traumatica è propria, in varie misure, di tutti gli artisti (ma anche di chi il cinema lo ammira fino alle lacrime). Ed è mirabile il modo in cui egli si adopera per aprirci un varco nel sentimento turbato di Hogancamp.

Tutto il cinema ci parla di divario tra sogno e realtà. La delicatezza di Benvenuti a Marwen risiede nel tentativo, al limite dell’eroismo, di tradurre il divario in forme letterali. Mark è un vero antieroe contemporaneo, l’emblema dell’uomo spezzato dal reale, la cui via di fuga è una dimensione parallela in cui i dissidi si compongono e la “favola” si compie. Marwen ci parla dello spirito epico, dell’ambizione al mito che risiede in ogni animo umano.
Privato delle sue abilità fisiche quanto del ricordo, Mark è un uomo-bambino, regredito ad una fase infantile e pulsionale (la sua ossessione per i seni). Nella ricostruzione del suo immaginario egli riparte dalle strutture elementari – un contesto fiabesco in cui rintracciare i rudimenti del rapporto col mondo e le cose, in cui ciascun personaggio assume una funzione: i nemici, le donne di Marwen, l’oggetto amoroso.

E’ fondamentale notare come nel microcosmo fantastico creato da Mark la donna assuma una centralità salvifica: “Le donne salveranno il mondo”. Guerriera, protettrice, rifugio, creatura angelicata: il film di Zemeckis analizza la pluralità di proiezioni della psiche maschile nei confronti del femminile con una sincerità disarmante.

Benvenuti a Marwen affronta il proprio materiale oscuro, freudiano, con una regia che effettua transizioni impercettibili tra reale e immaginario: la chiave del film è la continuità tra i due mondi. Lo scivolamento nella fantasia avviene sempre per mezzo della luce, o di piccoli spostamenti della macchina da presa. Le due dimensioni sono tremule, perpetuamente protese alla sovrapposizione. Il ritratto di Mark è commovente; Zemeckis fa affiorare tutto il suo dolore nello scarto che lo rende perenemmente estraneo al presente.

Ma Benvenuti a Marwen è anche uno strepitoso viaggio nel cinema, d’una bellezza da togliere il fiato. Inutile dire quanto il cinema sia per Zemeckis ciò che il microcosmo di bambole è per Mark; il regista allestisce la sua Marwen personale fatta di citazioni, ricordi, sequenze impiantate per sempre nell’inconscio. Nello straordinario prefinale che vede Mark affrontare il suo nemico, c’è un triplice omaggio a Hitchcock: Vertigo, Io ti salverò e Intrigo Internazionale sono interlacciati in un’unica, sensazionale sequenza; in più il regista ripercorre il proprio passato, da Ritorno al Futuro ad Allied: magnifici déjà vu in cui l’immagine diventa elettrica, ricordo che si infiamma e torna alla vita.
Sensazioni travolgenti, tantissimo cinema che strazierà i cinefili, i sognatori, tutti coloro che vivono sul limitare tra realtà e immaginazione, inseguendo un mondo lontano dal dolore.

ALLIED di Robert Zemeckis

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Pur nello splendore della sua confezione, Allied esercita un fascino freddo e cerebrale; quasi fosse un trattato accademico sui generi – film bellico, noir, melodramma – di distaccata erudizione.
Da sempre culture dei classici, Zemeckis sembra aver abbandonato, in Allied, la consueta progettualità che lo porta a scomporre quegli stessi classici insinuandovi una “febbre” ed una inquietudine contemporanea – con risultati diseguali e irregolari, ma sempre arditi e vivi: penso ai recenti Flight e The Walk – a favore di uno studio entomologico. Allied infatti osserva il cinema con lo sguardo scientifico di chi analizza l’organismo di un corpo già morto: è un film sulla morte dei classici.

Brad Pitt si cala nel deserto in procinto di incontrare il suo corrispettivo divistico contemporaneo: Marion Cotillard. Il primo incontro stabilisce non solo la natura della loro relazione, ma anche del loro rapporto con il pubblico: ed è significativo che Zemeckis abbia scelto una introduzione “debole” per le due star. Pitt e la Cotillard ci vengono presentati attraverso una serie di scene profondamente anticlimatiche. Un metodo che è l’antitesi dei modelli cui il film fa riferimento: si pensi a Casablanca, alla ieraticità silenziosa delle due star, alla presenza magnetica rafforzata da poche battute. Il divismo nel cinema classico non aveva bisogno di parole, ma viveva del carisma assertivo dei suoi protagonisti. E’ proprio nella loro assertività che trovava giustificazione anche la parola: volti come Bogart o la Bergman (ma anche la Bacall) si muovevano con sicurezza nelle sceneggiature più complesse (penso a The Big Sleep).

Dopo aver provato la fragilità delle sue star (che in una scena “diventano” Mr & Mrs. Smith), Zemeckis passa a esaminare forma, struttura e scenografie del cinema di una volta: contrariamente alla pulizia del decoupage classico, ci immette nel locale con ampi movimenti di macchina, virtuosismi che attraversano la sala, rapidi passaggi dall’ingresso al pianoforte passando attraverso la folla fino al viso della Cotillard. La sala del Rick’s Café di Casablanca è destrutturata. E la stessa operazione di “distruzione” avviene nelle scene in auto: abbandonando la frontalità classica che vede la coppia all’interno del veicolo, su fondale trasparente, Zemeckis passa ed esplorare la pluralità di punti di vista attraverso l’abitacolo dell’auto, mostrandoci persino alcune soggettive in cui il parabrezza è una cornice filmica del mondo esterno.

Dal punto di vista scenografico, il mondo allestito da Zemeckis è perfettamente, consapevolmente fasullo: la ricostruzione della città in interni è ovvia e stilizzata, e culmina nella scena del parto sotto le bombe, che è al contempo di una bellezza struggente quanto artefatta ai limiti del camp.
Zemeckis parte dalla sceneggiatura di Knight per mettere in atto una sofisticata operazione di decostruzionismo: Knight infatti contamina film bellico, melodramma e noir in un testo che ne condensa i “movimenti” e i temi essenziali fino al parossismo. Complesso, lacrimevole ai limiti del kitsch e infine pervaso di tanta paranoia hitchcockiana (e Zemeckis riprende il “bacio” di Notorious trasformandolo nell’elaborata scena d’amore in macchina), il testo di Knight finisce con il sancire l’impossibilità dei generi tradizionali nel cinema di oggi impregnato di scarti, debolezze e soprattutto privo di corpi in grado di assorbire le fragilità dell’ordinario.

Pitt e Cotillard esprimono un costante senso di disorientamento e inadeguatezza: Pitt rappresenta metaforicamente questa sua estraneità proprio attraverso quel paracadute che lo cala in un mondo a lui lontano. Nel finale, la Cotillard scrive una lettera di Ophulsiana memoria: una dedica funebre ad un cinema che non è più.