TUTTI VOGLIONO QUALCOSA di Richard Linklater

tuttivo

Era il 1990 quando Linklater girava Slacker, rivelandosi come uno dei nuovi talenti in grado di carpire i cambiamenti in atto nella cultura e stile di vita giovanili: il suo film era una lunghissima passeggiata attraverso il campus, un occhio diagonale che accoglieva diversità, mutazioni, stati d’animo, smarrimenti ed immaginario giovanile. Le interviste (improvvisate o messe in scena, poco importa) fatte ai ragazzi incrociati dalla macchina da presa in un flusso continuo, erano concepite come polaroids che interrompevano il tempo per consegnarci un’immagine iconica: il giovane indecifrabile, capelli lunghi e camicia a scacchi, sul cui viso si celavano passato e futuro, rurale e digitale, smarrimento e determinazione; con la dolce violenza della musica rock a definire, meglio ancora delle parole, il “sentire” giovanile.

Slacker fu un cult movie che ci consegnò un regista capace di capire la giovinezza (e l’energia che la muove) come pochi altri; nel corso della sua carriera, Linklater ha continuato a seguire questo movimento e a registrarlo con la mdp: dalla trilogia di Before Sunrise a Boyhood, ma anche attraverso i film-cardine Dazed and Confused e School of Rock, il cinema di Linklater si rivolge attorno ad un unico, universale coming-of-age inteso come esperienza più importante dell’esistenza, metafora della vita tutta; il “passaggio” è spirituale, corporale, sensoriale, e si ripete negli anni portando con sé la nostalgia, la musica, il ricordo, sensazioni struggenti.

Anche Tutti vogliono qualcosa è un film sui giovani e di giovani: ma è come se Linklater aprisse i cassetti del proprio cuore per restituirci un mondo completamente filtrato dalla memoria. Questo filtro è lo specifico del film: si può amarlo o restarne, come nel mio caso, soffocati. Se Slacker era la realtà presente, al cui interno si agitavano i germi del futuro, questo film speculare rimanda invece l’immagine pericolosamente all’indietro: non c’è realtà ma solo rappresentazione ideale di essa, memoria. Strutturalmente è organizzato proprio come il caos mentale dei ricordi: si compone di scene slegate, apparizioni, tuffi nell’inconscio. Un inconscio che ruba al cinema: con una fotografia da American Graffiti (cui ruba anche uno split screen), Tutti vogliono qualcosa è una proiezione interiore che cita Animal House, Porky’s, le commedie di Zucker-Abrahams-Zucker, ma privandole delle brillanti ingenuità ed imbalsamandole in uno studiato intellettualismo. La giovinezza viene fissata attraverso personaggi-chiave, privi di sfumature: una monotonia che è una scelta espressiva, dal momento che si tratta di un film tendenzialmente astratto in cui i protagonisti sono come i diversi colori di un quadro pop. Le parole scorrono torrenziali ma non hanno la benché minima importanza, mentre è la musica (fatta di brani celeberrimi, dal disco al punk) e scandire preventivamente gli stati d’animo. Il college non ha una sua realtà, è una proiezione di sogni e desideri: invece del campus di Slacker, Linklater allestisce un teatro di ricordi fatto di luci, clubs, camere da letto, automobili, partite di baseball che sono isole di separazione dal mondo reale. Un lavoro filologico alla cui base c’è la romanticizzazione narcisistica di una generazione: è un film di superficie più che di forma, e più autocelebrativo che di scoperta.