Appunti su CHALLENGERS (2024) e DESIGN FOR LIVING (1934): il ménage à trois a 90 anni di distanza

Design for a living e Challengers

E’ il 1934 quando Ernst Lubitsch, indiscusso maestro della commedia sofisticata, il regista più originale, brillante, spregiudicato della storia di Hollywood, consegna Design for living alle sale americane. Incentrato su un ménage à trois tra il pittore George, lo scrittore Tom e la musa Gilda, il film di Lubitsch mette in scena, in 90 minuti di ellissi, mirabili ed essenziali inquadrature, metafore visive e composizioni eleganti e allusive, la verità di un rapporto amoroso umanissimo e sfuggente alle ipocrite convenzioni della società. Legati da un’attrazione e un riconoscimento che li porta a ripudiare le banalità del romanticismo sentimentale e monogamo in nome di un sentimento insopprimibile – fondato sulla libertà quanto su uno sguardo ironico e giocoso nei confronti della vita – Tom, George e Gilda vivono una relazione dapprima illudendosi di disciplinarla attraverso regole, poi scoprendo l’impossibilità di domare l’impulso amoroso. In un vaudeville di tradimenti, abbandoni e riconciliazioni, i tre sperimentano un sentimento rivoluzionario, consapevoli della sua natura complessa. Il loro Design for livingprogetto di vita – sfugge a categorizzazioni e rifiuta il concetto di amore come cellula sociale, base strutturale produttiva. Come scrisse Baudelaire: “Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente”. È questo dandysmo a informare la personalità di Tom, George e Gilda, e a renderli innocentemente incapaci di vivere secondo la morale comune. Affiancato da Ben Hecht, autore di una sceneggiatura affilata e impudente che sfidava il Codice Hays, Lubitsch non dimentica però gli aspetti più teneri e appassionati della romance. I tre si amano profondamente, il romanticismo è profondo e sincero, al punto da indurli a “bruciare” i simboli del successo – gli abiti eleganti, il cappello a cilindro – per non tradire la natura bohémien del loro sentimento.

Queste considerazioni introduttive ci servono a riflettere sullo stato non solo del cinema, ma anche dell’amore e della società nel 2024, a 90 anni di distanza dall’opera di Lubitsch. Challengers di Luca Guadagnino prende le mosse da una vicenda che ha molto in comune con Design for living: il rapporto tenero, ambiguo tra Art e Patrick e il ruolo di Tashi, musa e arbitra degli equilibri tra i due giovani. Al posto di soffitte parigine e ambizioni artistiche e anarchiche, troviamo il mondo del tennis con le sue contraddizioni: il lusso, la ferrea disciplina, l’ossessivo potere del marketing che permea le vite dei protagonisti. Se Gilda inorridita dichiarava: “Vendi tutto quello che vuoi, ma non me. Sono stufa di essere un marchio di fabbrica”, per Tashi l’esposizione pubblicitaria è necessaria. Le immagini patinate che compongono una personalità vincente e affascinante, affisse su pareti, billboard o esposte sugli schermi, offrono consistenza a un carattere che vive di autocensure emotive e frustrazioni, e considera la debolezza dell’amore un affronto da reprimere. Se Gilda invitava Tom e George ad avere fiducia in se stessi, il ruolo di musa svolto da Tashi si riflette sulla vita di Art e Patrick in forma di umiliazioni (psicologiche e sessuali) e perenne insoddisfazione.

Le relazioni, in Challengers, sembrano muovere esclusivamente da provocazioni, competitività, narcisismo; ingoiato dall’individualismo e allestito in forma di parata sportiva, l’amore non è totalizzante, né generoso o libero. Un sentimento fondamentalmente narcisistico come quello messo in scena da Challengers trova il contesto d’elezione nel campo da tennis, spazio aperto al pubblico e quindi esibizionistico. Nel film di Guadagnino il ménage à trois è meramente formale, l’incontro di tre personalità distinte e separate che entrano in relazione senza però mai comunicare né godere del rapporto a tre – come entità, mondo in cui riconoscersi.
Nel suo splendore visivo, Challengers è un film di superfici (la bellezza dei corpi, la nitidezza degli esterni, il valore accessorio dei dialoghi, spesso sovrastati dalla colonna musicale) composte in un nucleo strutturale postmoderno. La scelta di una cronologia frammentaria e non lineare accentua lo scintillio degli istanti. Il regista immette nel suo lavoro di direzione l’ammirazione per il cinema del passato e si esibisce in citazioni hitchcockiane, tecnicismi, tour de force virtuosistici della macchina da presa. Il montaggio segue i ritmi dinamici del gioco, la pallina acquista una sua soggettività, il contre-plongée rende il campo trasparente, spingendo il voyeurismo fin nel sottosuolo. Ma non c’è profondità dietro il lussuoso movimento delle immagini (instagrammabili e forti di un’estetica saldamente aggrappata alla contemporaneità). Manca calore umano così come le riprese point of view sono prive di soggetto. È un cinema che eccelle nel fare marketing di se stesso e vendere la propria confezione.

Patrick e Art restano gusci vuoti, personaggi sorretti da pulsioni elementari (competizione e desiderio di possesso dell’oggetto-Tashi). A sua volta la ragazza, pur nella sua radicale determinazione, è del tutto asservita all’immagine sociale e incapace di trovare la radice del proprio desiderio se non attraverso il transfert tennistico. Il tennis, in Challengers, non è la magnificazione dell’amore o una sua metafora, ma il grande Spettacolo in cui celarlo e reprimerlo, fino ad avvilirlo con le stantìe dinamiche del tradimento. Metonimicamente, Art, Patrick e Tashi giocano perché impreparati all’amore.

SUSPIRIA di Luca Guadagnino

Suspiriae
* 1/2
Non ci soffermeremo, come già hanno fatto i numerosi estimatori di questo nuovo Suspiria, sulla germogliazione di riflessioni storico-politiche che si inerpicano sulla trama principale (come un organismo parassita, privandolo della sua forza); nè sull’amore manifestato dal regista per il Nuovo Cinema Tedesco, cui si ispira sia nell’organizzazione della struttura del film (diviso in capitoli, sul modello di Germania in Autunno, 1978) che nella freddezza fassbinderiana degli interni.

Questi elementi, che gonfiano la durata del film e diluiscono la concentrata concisione della sceneggiatura originale, a nostro parere costituiscono un dato deteriore: sia a livello etico nei confronti del genere horror, in quanto Guadagnino sembra avvertire la necessità di giustificarlo con ambizioni più nobili e profonde (dalla Storia alla psicoanalisi); sia estetico, distruggendo la sinfonia coloristica della prima opera – note monocrome in cui si condensava un’emozione, una condizione dello spirito – a favore di una palette di grigio esistenzialismo in cui avvolgere una selva di sottotrame documentarie: terrorismi, suicidi, fantasmi del nazismo e militanze politiche.

Guadagnino trasforma l’horror perfetto e ipnotico argentiano, in cui storia e racconto concorrevano a generare una struttura inarrestabile, sintetica ed iniziatica, in un polpettone storico/freudiano di stampo novecentesco, capace di disperdersi in mille rivoli narrativi, intrapresi e mai approfonditi; è un Suspiria di fallita ambizione proustiana, in cui ogni capitolo vive – o meglio, muore – di incisi, epifanici ricordi, illuminazioni del pensiero, costanti interrogativi: tradotti in un linguaggio cinematografico disorganico (montaggio “violento” di interni ed esterni, campi lunghi interrotti bruscamente da dettagli di visi, impiego contrappuntistico di suono e immagine).

La vera tragedia di questo Suspiria è la totale inadeguatezza di Guadagnino nei confronti dell’horror: incapace di decifrarne i codici essenziali, il regista è impreparato nell’elaborazione di meccanismi perturbanti: accelera sequenze fino a climax che non hanno luogo; usa lo zoom gratuitamente, concentra l’attenzione dello spettatore su dettagli poi lasciati cadere nel vuoto; si serve del vecchio espediente degli specchi per darci indizi di doppiezza e condurci sulla strada di un universo rovesciato; ma al cinema di Guadagnino manca del tutto la qualità orrorifica – il voyeurismo, la perversione dello sguardo, il gusto di sovrapporre i nostri occhi all’occhio del carnefice. Manca la capacità di una elaborazione temporale dell’horror, che nel suo Suspiria si manifesta in una struttura piena di falle temporali in cui si inserisce la noia, la distrazione.

Purtroppo il cinema di Guadagnino vuol far pensare, non vuole far godere. Il sospetto è che al regista manchi completamente il gusto di fare horror, il “piacere di uccidere una bella donna” proprio di Argento. Ed è sul femminile che si registra il più grande fallimento: le donne di Suspiria sono completamente opache; non esistono se non in quanto involucro atto a convogliare il narcisismo del regista. Al contrario, il Suspiria argentiano trionfava come messa in scena (oscura, fitta di simboli e suggestioni arcaiche) di un universo femminile e matriarcale: l’opera di un uomo che ama le donne, fino a percepirne il respiro sovrannaturale.

Non basta qualche patinata sequenza onirica, nè immagini di puro disgusto anatomico per creare un horror. Le interpreti si muovono smarrite, senza sapere quel che fanno; ma nemmeno Guadagnino lo sa, e punta ad un grottesco autoreferenziale. Suspiria affastella visioni, accumula montaggi, dispensa grandangoli, non ci risparmia una pluralità di concettualismi. Ma manca la pulsione, manca il cineasta come assassino, capace di renderci complici/colpevoli del suo immaginario.

CALL ME BY YOUR NAME di Luca Guadagnino

callmeby****
Call me by your name
 svanisce come svaniscono i sogni al risveglio. E’ un’opera che afferra quasi miracolosamente uno stato sentimentale, trascrivendolo in immagini-emozioni prive di stabilità. La macchina da presa di Guadagnino è in continuo movimento: si aggira, guarda, si distrae; passa con rapidità da un volto ad una turistica distrazione (un campanile, un monumento). E’ un vero e proprio sguardo adolescente, spinto dalle curiosità e dagli stati emotivi dell’inesperienza: una successione di impermanenze.
Ed è rara la grazia con cui il regista sa catturare la mobilità, l’irrequietezza dell’amore; i suoi slanci improvvisi, le cadute, le voglie irrazionali. C’è, anche, da parte di Guadagnino, il desiderio di mostrare una natura bella, osservatrice impassibile: regolarmente, lo sguardo si sposta dai due giovani ad un elemento naturale – gli alberi, l’acqua, un paesaggio – e sono forse i momenti più deboli, quelli in cui si avverte un’istanza metaforica troppo esplicita. Ma è una fragilità che si perdona ad un film che riesce, con il suo occhio impalpabile, a farci provare il dolore e l’estasi di un amore colmo di giovinezza.

Quello di Guadagnino è un film-memoria, che riporta a galla emozioni perdute; tutto, in Call me by your name, è già ricordo: l’estate, i silenzi pomeridiani interrotti dal ronzio delle mosche, la sensualità dei frutti maturi, l’indolenza del sonno; e ancora, il corpo nella sua freschezza, i labili confini tra amicizie e romanticismo, il contatto carnale come scoperta che trasfigura lo spirito. Il desiderio, tra Elio e Oliver, è talmente intenso da travolgere lo spettatore, proiettarsi su di lui. Guadagnino ci fa provare l’anelito per le labbra dell’altro, una brama che è pulsione di morte: chiamarsi col nome dell’amato, perchè è solo in lui che si vive.

Timothée Chalamet e Armie Hammer sono talmente credibili da scuotere profondamente la sensibilità di chi guarda: figure vive, spontanee, in cui mai cogliamo un sospetto di recitazione: essi “sono” Elio e Oliver, e il velo di tristezza che si dipinge sui loro volti è tanto sottile quanto struggente. La loro passione infiamma lo schermo di erotismo: ogni carezza, ogni bacio rubato ci turba. E’ un film nouvelle vague nel senso più autentico, nella riscoperta di un cinema inquieto, innocente, alla ricerca di cuori messi a nudo. Non è un’opera che si presta alla selezione del “frame” immortale, da immobilizzare: è cinema palpitante, è un soffio vitale che passa sullo schermo e ci strazia l’anima, per attraversarla imprendibile.