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In un momento in cui il cinema americano si ripiega sul proprio passato principalmente come riflessione formale e strutturale, un film come La battaglia di Hacksaw Ridge torna alla grande tradizione bellica degli anni ’40 non come un “occhio” esterno che analizza e riproduce; bensi come uno sguardo dall’interno, appropriandosi del sentire, del profondo senso di identità americana incarnata dai film dell’epoca. Gibson riesce, con amore profondo, a restituirci in immagine questo sentimento del tempo, e a ricostruire la trasformazione del sogno in incubo.
La battaglia di Hacksaw Ridge si struttura in due movimenti ben distinti: nel primo, Gibson ricrea quella che era la percezione americana del sé attraverso il cinema, per mezzo di echi di Hawks, Wyler e John Ford; un’ America dalle radici rurali (la brutalità della famiglia di Desmond fa pensare agli hillbillies de La via del Tabacco, 1941, di Ford), dagli ideali semplici di verità, innocenza e valore (come ne Il Sergente York, 1941, di Hawks), ma anche incrinata da interrogativi, senso di fallimento cui opporre una reazione basata sulla fede e sull’azione (I migliori anni della nostra vita, 1946, di Wyler).
Gibson ci restituisce esattamente l’America “pensata”, immaginata dai suoi stessi abitanti e ci riassume il senso di una nazione: lo fa tramite scelte iconografiche precise – la purezza dei boschi, l’operosità cittadina, la bellezza e innocenza dei rapporti amorosi. Impossibile non ricordare, vedendo le schermaglie amorose tra Desmond e Dorothy, la passionalità del rapporto tra John Wayne e Maureen O’Hara, la rossa più fiera e indomabile del cinema americano: il loro bacio nel vento ricorda le relazioni selvagge, tra schiaffi e resistenze, della celebre coppia.
Ma con l’arruolamento di Desmond inizia il secondo movimento del film, e la sua discesa agli inferi: La battaglia di Hacksaw Ridge si trasforma, con passaggio traumatico, in un film di lacerante contemporaneità, impossibile da comprendere senza l’illusione di identità e giustizia espresse nella prima parte. Si è tanto criticato Gibson per la violenza “pornografica” del film, ma è proprio l’esposizione nuda e scabra di questa violenza, la sua assoluta verità a costituire il cuore dell’opera, la sua anima pulsante. E’ nel sangue, nelle carni maciullate e offerte senza pudore alla visione il rovesciamento del sogno, dell’ideologia pragmatica e delle certezze nazionali.
L’ingresso nella battaglia viene vissuto dallo spettatore in prima persona: Gibson ci trascina dentro l’azione, ci obbliga a guardare da vicino quel tasso di mortalità dell’80% che fu la realtà storica di Okinawa: ci sembra di stare accanto ai morti, sentirne l’odore, sentire il calore del sangue che scorre. Esplosioni, agguati, fuoco, polvere: è tutto veloce ma non indistinto; Gibson struttura il tempo in modo da farci identificare l’orrore, il suo svolgimento, soffermarci su un corpo che esplode. L’umanità diventa irriconoscibile attraverso la distruzione, evidente e scoperta, del corpo. La violenza come indecenza, secondo i detrattori del film: ma in questa indecenza risiede la sua trascendenza pacifista.
Desmond Doss è un personaggio di una bellezza lacerante, la cui fede lo sorregge dentro l’inferno: la sua azione fu un miracolo davanti al quale commuoversi, stupirsi ed interrogarsi. Garfield lo interpreta con tutta l’umiltà, l’innocenza ma anche il tormento del dubbio: egli è profondamente umano, animato da una scelta. La pace resta un anelito miracoloso, un’ascesa al cielo come ci mostra la bellissima sequenza del suo salvataggio. Gibson non è regista da sottigliezze, sottolinea azioni ed emozioni in modo ampio e aperto, roboante: il suo pensiero è semplice, ed è qui tutta la bellezza del suo cinema.