GODZILLA VS. KONG di Adam Wingard

***1/2
Con il nuovo Godzilla vs Kong si consuma il grande fraintendimento hollywoodiano: di fronte ad una mitologia estranea quanto antropologicamente significativa e dotata di leggi definite, l’imperialismo americano muove verso un’appropriazione che ne riproduce i dati esteriori per adattarli al proprio sentire; assimila, ma senza un’intima comprensione.
Se Godzilla: King of the Monsters, il più vituperato della saga (criticato soprattutto da un pubblico alieno al puro piacere del Monster Movie e alla ricerca di inutili significanze di trama, sociali o narrative) raggiungeva l’estasi della pura forma-mostro, così come veniva teorizzata dagli originali della Toho, il film di Wingard vira verso una più accentuata ibridazione di sensibilità. Godzilla vs. Kong abbandona la ricerca della mistica con cui le creature si sono innestate sull’immaginario collettivo per collassare nella più banale antropologia culturale americana, operando uno spostamento dal mostro all’umano: sia Kong che Godzilla sono strumentali alle vicende umane e vengono, a loro volta, umanizzati nel sentire.

Privati del necessario distacco dalle regole del consorzio umano, i due titani si adeguano ad esse fino a riprodurre una imitazione di dialogo. Kong, nella versione di Wingard, è dotato di una comprensiva saggezza che lo ammansisce: ed è triste notare quanto la necessità hollywoodiana di rendere il prodotto accessibile a famiglie conduca al “disarmo” totale del mostro, soprattutto di fronte a una bambina. La cultura americana (a differenza della società) avvolge l’infanzia in uno stucchevole spazio protetto: penso alla differenza con un film come The Host, di Bong Joon-Ho, in cui la Creatura non si fa scrupolo di violare un bambino. Il Kong di Wingard é invece un gigantesco animale da compagnia che non esita a sacrificarsi: ne risulta una figura nobile, di una saggezza che traspare attraverso l’eccezionale design e la cura degli effetti speciali. Mostro, sì, ma con un dolore interiore, una sofferenza cupa e sospirosa nello sguardo quanto nelle movenze. Questo Kong è un eroe da sturm un drang, una figura addolorata in un pianeta alla deriva.

Più distante e divino Godzilla: ma sempre capace di operare una razionalizzazione e porsi dalla parte degli umani. Un elemento già presente nel capitolo di Dougherty, ma qui esasperato al punto da fare dello scontro finale una sorta di sogno onirico, una devianza bellissima da un film che altrove ci propina ogni sorta di moralismo contemporaneo da cui non sembra più possibile sfuggire, nemmeno nel regno dei kaijū. Banalizzazioni di ecologia, femminismo, diversità, sono non solo l’immancabile decorazione etica ma anche la la pavimentazione narrativa su cui si infrange la ragione d’essere dei kaijū: che è mero terremoto percettivo, apparizione magica, annichilimento di fronte a un fantastico infinito.

Così, mentre si consumano le inutili azioni/funzioni/dialoghi di Millie Bobby Brown, Julian Dennison, Rebecca Hall o Alexander Skarsgård, su cui Wingard erige una struttura di cui nulla ci importa – quella di banali drammi terreni – attendiamo religiosamente l’apparizione: lo scontro finale degli déi, la vertigine spaziale su cui si staglia l’intangibilità del mostro, la sua forza bruta eppure sovrannaturale.
Il combattimento tra Kong e Godzilla, il loro puro e cristallino essere, sprigionano l’unico senso possibile del film; e Wingard realizza, in questi pochi minuti – con il contributo di un comparto tecnico-effettistico d’avanguardia e di un production design d’una bellezza che sfiora vette impossibili – il miracolo di una sequenza perfetta. Luci, visione, colore, pura forma e movimento: i due mostri incarnano tutto il bisogno dello spettatore appassionato di oltrepassare le sue misere capacità percettive e proiettarsi in un cosmo sensoriale separato, in cui l’emozione estetica si sposa ad un godimento primordiale.
Ed è allora che la dimensione dei segni umani – il nero dell’inconscio, il terrore sacro, il senso di colpa primigenio – viene sublimata nella bellezza del kaijū, che non ha bisogno dell’uomo per essere e trionfare; nonostante Hollywood, ma anche nonostante l’assurdità di una scelta italiana che lo ha privato del suo luogo d’elezione: il cinema.

KONG: SKULL ISLAND di Jordan Vogt-Roberts

king-kong-skull-island-brie-larson-tom-hiddleston**1/2 (4 stelle la prima parte, meno di 2 la seconda)

Kong: Skull Island verrà ricordato, forse, come il peggior ruolo di Tom Hiddleston: il più improbabile degli action heroes, penalizzato da una scrittura fiacca e inane. Tom cammina smarrito nella foresta, concede lunghi sguardi silenziosi all’orizzonte, e nell’unica scena d’azione che lo vede coinvolto è sostituito da uno stunt con maschera antigas e spada in mano, volteggiante in puro stile Douglas Fairbanks.
Hiddleston è troppo pensoso, troppo debole; eppure il prologo del film ce lo aveva presentato in un localaccio dei bassifondi, col viso sudato e la barba trascurata, sbruffone come il Clark Gable di Red Dust. Ma questa è solo una delle promesse non mantenute del film, che nella prima parte si offre alla visione con una inconsueta freschezza di approccio: dalla prima apparizione di Kong, magnificato da una potenza iconica tale da rendere onore al suo passato e alla sua mitologia; al ritmo incalzante delle scene, orchestrate in un crescendo cronologico e soffuse di apocalittica urgenza; all’inferno attraversato in elicottero, una sequenza densa di passato ma dal montaggio moderno e spezzato, con numerose inquadrature in soggettiva che immobilizzano letteralmente lo spettatore nell’abitacolo.

Nel corso della prima ora, il regista dimostra un talento eccezionale nel mettere a contrasto sguardo umano e fenomeni naturali: riesce a enucleare la violenza in entrambi, il senso primitivo di lotta. In uno scenario guerresco che cita Apocalypse now, ma adotta anche lo stile leggero di David O. Russell (Three Kings) nel combinare azione militare e canzoni anni ’70, ecco apparire i mostri: King Kong, ma anche ragni giganti, monumentali insetti/stecco, enormi pterodattili. Immediatamente ci sentiamo catapultati nel passato, nelle Mysterious Islands dimenticate dal tempo e popolate dalle creature di Ray Harryhausen. Skull Island non possiede solo uno spirito avventuroso, ma convoglia l’anima del B-movie intriso di terrore alieno: si respira un paranoico senso di minaccia incombente, e il personaggio di Samuel L. Jackson interpreta l’urgenza di una difesa psicotica e irrazionale (perfettamente in linea con la schizofrenia americana d’oggi).

Dopo questa lunga introduzione, brillante per azione e messa in scena, il film purtroppo perde completamente la sua furia visiva e fantastica per calare in un anonimato descrittivo: lo scontro con l’elemento naturale lascia il posto a lunghi dialoghi, le scene di raccordo si trascinano, i soldati vagano per l’isola raccontando se stessi. Kong: Skull Island diventa un film d’avventura per ragazzi, privo di zone oscure e vera tensione, e soprattutto privo di pathos: Kong quasi scompare, e non viene mai instaurato un rapporto con lui.
Il gusto del melodramma, tratto principale del capolavoro originario di Cooper&Schoedsack, è ridotto ad una vaga, informe allusività. Kong non si innamora, Kong non è umiliato dall’uomo e esposto al ridicolo: la sua tragedia è smussata, e l’uomo non viene dipinto in tutta la sua immorale bassezza (in fondo il Kong del 1933 non è differente dai Freaks di Browning).

Kong: Skull Island resta un divertimento adolescenziale, ben lontano dalle cupezze adulte del Godzilla di Gareth Edwards. Sul finale, il film lancia un messaggio sociale di solidarietà ai veterani: un tema con cui, prima o poi, l’America dovrà fare i conti seriamente, senza sublimarlo in immaginari fuori dalla realtà.