FIRST REFORMED di Paul Schrader

[Appunti brevi]

Mentre Paul Schrader a Venezia riceve il Leone d’oro alla carriera, torno brevemente sul suo First Reformed (2017), un film che lascia un’impressione indelebile, tra i più importanti degli ultimi anni; cinema libero e irriducibile, capace di calarsi con determinazione nel cuore di tenebra dell’esistenza umana quanto di percepirne la luce, sfiorandola in immagini di struggente geometria.
Schrader conosce il tormento, la vertigine di un pensiero straziato da tensioni opposte. La grazia, la colpa, l’aspirazione a una impossibile redenzione sono scritti sul corpo di Toller/Hawke, osservato da vicino o nel dettaglio di mani che si tormentano, scrivono, toccano. La coscienza cerca riparo nell’esercizio della parola scritta (il diario di ascendenza bressoniana), ma il turbamento dell’anima straripa e travolge ogni forma di luce razionale. Lo spazio è rigoroso, alieno; i corpi vi si muovono in uno stato di perpetua estraneità e le inquadrature ci parlano di una sfasatura senza fine. La presenza divina è astratta e impenetrabile, resa ancor più remota dalle simmetrie architettoniche della chiesa. Toller, come il personaggio di Nicolas Cage in Bringing Out The Dead (1999) non riesce più a reggere il dolore del mondo. Solo l’amore offre un volo momentaneo, staccando Toller da terra in una sequenza di tale audacia visiva da ricordarmi il Fuller più delirante. Come Cage, anche Hawke trova una Mary cui stringersi (e la centralità salvifica della figura femminile tornerà anche in The Card Counter, 2021).
Tanta fragile umanità scuote lo schermo, lasciando una tempesta nello spettatore. “Will God forgive us?”

REGRESSION di Alejandro Amenábar

regressionRegression non è cinema, ma una giustapposizione di dialoghi, ripresi e tenuti insieme da scene di raccordo. Amenàbar predilige di gran lunga gli elementi verbali a quelli visivi, ed il suo film è un vuoto emozionale: tutto quello che vediamo in Regression è una mera ripresa, una registrazione visiva di personaggi impegnati in un confronto dialogico. E’ un film “parlato”, o meglio: Hitchcock l’avrebbe definito “fotografia di gente che parla”. Senza dialoghi non resta che uno scheletro di primi piani e pochi schematici campi-controcampi; dialoghi che, tra l’altro, sono del tutto inerti dal punto di vista della progressione narrativa: mal scritti e mal recitati, si abbandonano ad una logorrea che danneggia sia la tensione che l’economia del racconto.
A peggiorare questa struttura già debole si aggiungono i finti flashbacks. Amenàbar si serve di questi brevi squarci visionari per dare respiro alla claustrofobia verbale, ma si ha l’impressione di un facile espediente per sollevare un moto emozionale nello spettatore; quasi una decorazione posticcia, un trucco aggiunto per distrarre dall’immobilità del tutto.

Regression è un non-film che imita la televisione appropriandosi di un suo specifico – la scrittura, il dialogo – ma lo fa nel peggiore dei modi, ignorando almeno un decennio di serial televisivi che hanno ridefinito il concetto di qualità artistica, con elevatissimi standard sul piano del linguaggio, di storia e discorso, definizione dei caratteri, stratificazione semantica e sperimentazione estetica. Senza attingere ad esempi “alti”, qualsiasi poliziesco da canale regionale, o serie legale di terz’ordine, è sicuramente più avvincente di questo prodotto di Amenàbar, da lui sorprendentemente scritto e diretto: viene a mancare persino l’attenuante di un lavoro svolto su commissione. Stupisce che un regista del suo calibro, dotato (in passato) di sensibilità, gusto estetico ed esperienza “artigianale”, si sia smarrito al punto da perdere di vista del tutto la consapevolezza del mezzo-cinema: Regression è, in poche parole, un grosso fraintendimento.