DOLOR Y GLORIA di Pedro Almodóvar

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L’eterno e reciproco riflesso dell’arte sulla vita, i paradossi della creazione, la cognizione del dolore e l’amore alla luce del ricordo: anche Pedro Almodóvar, come già accaduto a tanti altri artisti passati e presenti, si trova a dover fare i conti con la rielaborazione di quel furore di cui ha intessuto esistenza e produzione artistica. Il suo Salvador Mallo, depresso e provato dalla malattia, ripercorre il passato – in forme episodiche, casuali, talvolta “incidenti” della realtà, altrove carezze della memoria – cercando di ricomporre la propria identità frantumata e smarrita.
Salvador come personaggio pluridimensionale, figlio del ‘900; uno, nessuno e centomila, incapace di riconoscere se stesso e quindi di esprimere il proprio sguardo artistico sul mondo. Sarà proprio il percorso a ritroso a ricostituire in unità la sua personalità spezzata; una salvezza in forma di luce, capace di rinnovare il suo impulso creativo.

Vi è una grande bellezza nella sostanza filosofica di Dolor y Gloria, che però non trova un “correlativo oggettivo” nelle immagini del film. Tanto tumulto interiore e una scarnificazione così profonda e autobiografica vengono codificati da Almodóvar in immagini di grande immobilismo, estremamente curate dal punto di vista scenografico, ma povere di vita.
Affindandosi esclusivamente ad una narrazione dialogica, abbracciata da Almodóvar senza freni – uno stato di puro abbandono verbale – Dolor y Gloria rinuncia quasi completamente al movimento: il film si compone di inquadrature fisse, in cui i volti in primo piano si stagliano su pareti di geometrica astrazione (carte da parati, quadri simmetricamente disposti) e dai cromatismi accentuati.

Come sempre accade nel cinema di Almodóvar, la scenografia diviene una prepotente componente emotiva, ma in Dolor y Gloria diventa “segno” cinematografico dominante di un film che, nella sua quasi totalità, sembra rinunciare al cinema in favore di una “forma” televisiva: dalla predilezione per il primo piano alle riprese in interni (dove si consumano confessioni rivelatorie) secondo standard comuni a molta fiction.
A spezzare questa estetica monotona intervengono ogni tanto jump cuts utilizzati per simboleggiare la frammentarietà dell’esperienza di Salvador; Almodóvar ricorre ad un montaggio fatto di sussulti, quasi improvvisi batticuori: ma la forma dell’opera resta spuria, una “serie” composta da episodi in forma sequenziale e legati dalle memorie dell’infanzia (le quali rivelano la propria natura di strumento narrativo proprio nel finale).

Dolor y Gloria è un film interiore, rivolto all’interno dell’anima almodovariana, poco desideroso di comunicare con lo spettatore; al regista interessa condurre il pubblico dentro le proprie ossessioni, oscurità, concedendogli quei piaceri estetici specifici del suo cinema, ma senza un vero dialogo con gli occhi di chi guarda. E’ un dialogo con se stesso, sulle proprie scelte di vita e sulla strada autoriale percorsa, con tutti i dubbi, il senso di fallimento e i riscatti che tale dialogo comporta.
Per molti aspetti, Dolor y Gloria ricorda Mia Madre di Moretti: con la differenza che l’opera di Moretti si configurava come riflessione profonda e sofferta sull’arte cinematografica – sofferenza innescata dalla perdita della figura materna, in un cortocircuito di arte e vita estremamente commoventi. Almodóvar invece sembra prediligere un narcisismo autoindulgente, privo di immagini davvero significanti. E trova il suo alter ego d’elezione in un Banderas mai così innamorato di se stesso: la sua interpretazione di Salvador trasuda maniera e finzione, al punto da rendere problematica l’adesione emotiva al personaggio.