THE WHALE di Darren Aronofsky

Darren Aronosfky, grande ammiratore del prematuramente scomparso Satoshi Kon, ha conservato nel cuore la sua filosofia: “negli esseri umani i ricordi, il presente, il passato e il futuro coesistono”. Un sentire che è presente in ogni inquadratura di The Whale e soprattutto nell’animo del protagonista Charlie (un magnifico Brendan Fraser), pronto ad abbandonare la propria vita corporea mentre ne coglie tutta la pienezza spirituale.
Insegnante mite e gentile, ma fermo nella sua ricerca di un vero che dia senso all’esperienza esistenziale, Charlie vive da recluso e si mantiene facendo lezioni via zoom, ma a webcam spenta. Visualizzato come un quadrato nero, Charlie è già fantasma e ombra, creatura di passaggio pervasa dal desiderio del nulla. La sua voce, calma e uniforme, sembra razionalizzare il dissidio con le forme estreme del proprio corpo. L’uomo vive una profonda contraddizione tra una fisicità ormai fuori controllo – traumatizzata e autolesionista, alla ricerca dell’annientamento nel cibo – e un pensiero trascendente in grado di abbracciare il reale, perdonarlo e comprenderlo nella sua interezza. Il fatto che il film si svolga in interni monotoni, privilegiando registicamente una struttura che vive di coazioni a ripetere (ingresso degli ospiti; porte che sbattono; dialoghi in campi/controcampi; soggettive di Charlie che scruta le ombre dietro la finestra) non si traduce in un cinema statico, ma in costante rivoluzione. All’interno di quelle mura e tra i pochi mobili sfatti, si agitano gli esseri umani e il Tempo, attratti dall’essere di Charlie, dalla sua enigmatica forza irradiante. Colpi di scena, stupori e confessioni si susseguono, ma è lui il centro emotivo. Seppur immobile, pesante, trascinato verso il basso dalla una mole umiliante e terrena, Charlie possiede una luce: è la luce della morte, che rende il suo sguardo limpido e infinito. Alle soglie della dissoluzione del corpo, egli acuisce i propri sensi e la propria sensibilità: finalmente comprende l’immensità del suo amore per la figlia Ellie, e ha uno sguardo di misericordia per tutti. 

Aronofsky scandisce il quotidiano del protagonista attraverso pochi rituali che si svolgono nell’arco di sette giorni. Tre scatole di pizza, consegnate ogni sera da un fattorino invisibile, rappresentano l’ultima parvenza di scambio sociale. Solo poche persone varcano la soglia che separa l’esterno tempestoso, condannato a una pioggia incessante, e l’interno incolore del suo appartamento. L’incontro con la figlia Ellie, abbandonata otto anni prima, crea momenti di tensione e tristezza quasi insostenibili; la brutalità verbale della ragazza è tradita dai suoi occhi lucidi e tremanti, mentre Charlie pronuncia poche parole d’amore e bellezza. Aronofsky proietta sullo schermo una realtà letteralmente infilmabile – un padre fallito e in pieno disfacimento corporale, una figlia consumata dalla propria violenza interiore; ma attraverso questo incontro/scontro duro e impietoso il regista sa farci intuire la presenza di una Grazia. Ed è per questa speranza, anche là dove tutto sembra perduto, che il suo cinema possiede un’audacia rara e la capacità di staccarsi dal peso del mondo.

La sceneggiatura, adattamento dell’opera teatrale di Samuel D. Hunter, sembra quella di un Tennessee Williams riemerso dal passato per posare il suo sguardo su un presente di cenere. Le parole hanno qualità poetica, sono un pianto dell’inconscio. Ogni tanto si apre un ricordo – solare, benedetto – che l’immaginazione (come il cinema) ci permette di abitare: non tutto è perduto, l’amore è ancora lì, così vicino da udirne la voce.
Charlie si riavvicina ai suoi amori perduti, riesce a incrinare la morsa di gelo cui si dibatte la ragazza. Il finale è luce, quella luce che per tutto il film abbiamo avuto l’impressione di ravvisare, tra le crepe del presente oscuro, tra le piaghe di un corpo da gigante; e quando un regista ci inonda di luce, allora la nostra esperienza va oltre il cinema, fino a raggiungere quelle stanze interiori che, come Charlie, abbiamo tenuto serrate per paura della vita.

MADRE! di Darren Aronofsky

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Che si ami o si odi, Madre! di Darren Aronofsky è un film importante per il suo porsi “contro” lo spettatore. Il film è un manifesto incendiario (letteralmente) contro lo strapotere della platea, responsabile del livellamento dell’immaginario e della standardizzazione delle poetiche cinematografiche, risolte in tematiche sempre più “responsabili” e in compromessi stilistici. In un presente che fa del cinema un veicolo di correttezza politica, attento a non offendere il gusto, le categorie sociali, le religioni, il “buon” senso estetico – e del tutto disinteressato a rivoluzioni artistiche e culturali – Madre! si configura come l’opera di un dandy sprezzante delle masse; un oggetto artistico che risponde esclusivamente alle intenzioni del proprio autore. Aronofsky cerca di rinnovare la rappresentazione quanto la fruizione; figlio degli anni ’70 in cui ha trascorso la sua infanzia, porta impresso nel suo dna un concetto di cinema libero, aristocratico, fedele al suo creatore fino al ridicolo.

Come è stato riscontrato, Aronofsky prende le mosse da Rosemary’s Baby (1968) di Polanski; ma Madre! è stilisticamente antitetico al capolavoro dei ’60. Il film di Polanski oggi ci appare di un classicismo vivido e lucido, debitore di Hitchcock ma anche delle avanguardie surrealiste (per quanto riguarda le scene oniriche); Madre! vi contrappone una visionarietà saldamente innestata su un gusto presente: girato prevalentemente con macchina a mano, eppure mai approssimativo (si direbbe invece di una precisione matematica nella gestione dei tempi e nella struttura delle sequenze), trasforma la personale memoria cinematografica – mescolando horror, war movie, cinema “interiore” bergmaniano, commedia slapstick – in un’opera originale, espressione della propria soggettività sacrale e autoironica.

E’ vero che Madre! è appensantito da metafore impossibili da enumerare: l’allegoria della creazione artistica e la rappresentazione della grottesca idolatria delle folle ricordano, in parte, il film Henry Fool (1997) di Hal Hartley; ma Aronofsky spinge oltre il suo furore allucinatorio, intrecciando la parabola dell’Artista con allusioni religiose, rappresentate in modo esplicito, grezzo: appaiono Caino e Abele, le piaghe d’Egitto (si pensi alla casa che sanguina, alle rane, al contagio), la “condivisione”, la profanazione del tempio, i “doni”, il sacrificio dell’Agnello. Il valore simbolico di Madre! è faticoso e programmatico; ma il cinema che ne deriva è potente, irrazionale.
Che un film come Madre! venga proiettato nei Multiplex è, di per sé, una forma di blasfemia artistica che non fa che aggiungere al suo fascino malato e purificatorio.