LE MANS ’66 – LA GRANDE SFIDA di James Mangold

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Le Mans ’66
è un meraviglioso cortocircuito di passato e presente: il cinema di un “grande artigiano”, tanto per rispolverare una delle definizioni più abusate dalla critica; ma val la pena rammentare che “grandi artigiani” di Hollywood furono registi quali William Wyler, Henry Hathaway, George Stevens o Henry King. James Mangold guarda al loro cinema immortale, a opere allo stesso tempo popolari, appassionate, ma dalla regia di una purezza espressiva tale da assurgere alla dimensione della più emblematica classicità hollywoodiana. C’è, in Mangold, un amore per l’istinto naturale proprio dei maestri, la cui umiltà li poneva a servizio dell’arte.
Se in Logan questo “ritorno” al passato assumeva i tratti di una rievocazione fantasmatica attraverso il superhero Wolverine – ora cowboy, ora disincantato antieroe noir in un deserto nichilista dalle luci spirituali – in Le Mans ’66 l’aderenza al classicismo è una gloriosa dichiarazione; non più, quindi, il rimpianto di fantasmi perduti, presenti appena in trasparenza; ma la riappropriazione di una tecnica, un mestiere, così come di un senso del racconto e dello spettacolo.

Le Mans ’66 è la messa in scena di una storia americana archetipica, in grado di farsi mito popolare. L’antinomia sogno/realtà (tradotta in uno stato malinconico che attraversa l’azzurro dei cieli e la crudeltà degli spazi), la volontà dei self-made men (incarnata da un Matt Damon vulnerabile e imperfetto), la poesia dell’outsider (un grandissimo Christian Bale, cavaliere solitario di struggente innocenza) allestiscono il Mito americano nelle sue contraddizioni, violenza e disperata umanità. C’è tanta poesia in Le Mans ’66 – c’è Walt Whitman, c’è Williams Carlos Williams, c’è Edgard Lee Master; il film è un microcosmo di dannati ed eroi, di anime operose e “sante” (come diceva Allen Ginsberg) cui si contrappongono figure raggelate nella meschinità.

Mangold si concentra sull’uomo, la sua sofferenza, le battaglie interiori, la spinta ad oltrepassare i limiti imposti dalla propria condizione, per lasciare una traccia eterna. E se le sequenze d’azione sono stupefacenti, con un senso di vitalità e realismo “sporco” e tremendamente drammatico (non c’è l’eleganza di un Rush, ma una concretezza aspra), a Mangold interessa soprattutto il volto umano, le emozioni che attraversano il viso, il sudore, il batticuore in corsa (che sentiamo risuonare nel nostro petto).
Percorrere la pista con il Ken Miles di Christian Bale vuol dire sentire la brutalità della strada, il calore dell’abitacolo, l’adrenalina innescata da un’auto che ci sfiora o esplode davanti ai nostri occhi. Il regista ci offre un’esperienza totale dello spazio, della velocità e di una intima vicinanza con la morte; l’esistenza oltrepassa i suoi confini terreni e lo sguardo, come spiega Miles, si “apre” in un orizzonte in cui la vita e la sua fine si congiungono circolarmente.
Le luci della sera illuminano tramonti luccicanti come lacrime, mentre una “nostalgia del presente” pervade l’aria. Tutto fugge; Mangold ci regala due ore e mezzo di Storia che si fa leggenda.

KNIGHT OF CUPS di Terrence Malick

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Per molti, il cinema recente di Malick è un tradimento: un percorso autoriale differente da ciò che avevano immaginato, una delusione da rifiutare. Eppure amare il cinema significa anche essere in grado di accogliere l’immagine, lasciarla respirare nel nostro sguardo; soprattutto un’immagine qual è quella malickiana, di infinita bellezza e capace di scardinare i limiti della nostra percezione. Un’immagine protesa alla ricerca ed alla meraviglia, incapace di trovare riposo: tutto è movimento, tutto è in continua trasformazione. Si può guardare il mare ed essere improvvisamente distratti da un volo di gabbiano, o si può seguire un protagonista e poi lasciare che il nostro occhio cada su un animale ferito che attraversa la strada. Il cinema di Malick imita l’umano pensiero ondivago che, irrequieto, cerca di cogliere il senso delle cose; un pensiero che vorrebbe volare per afferrare lo spirito divino immanente alla natura.

Malick da tempo segue un istinto poetico (che lo accomuna all’Herzog de L’Ignoto Spazio Profondo) tradotto in un cinema personale, religioso e audace nell’abolire il peso della storia. Il suo cinema è avulso dal Tempo ed ogni scena diventa storia a sé, in grado di riscriversi in innumerevoli modi differenti nel ricordo del personaggio che la vive o nella mente dello spettatore che se ne appropria. In Knight of Cups non sappiamo mai cosa succede davvero, o chi sono gli enigmatici personaggi che lo abitano; eppure Malick ce li fa amare, ce li presenta intimamente, nudi e lacerati, rivelati in una bellezza di cui nemmeno sono consapevoli. In questo senso il cinema di Malick è davvero vicino all’amore, con il quale crediamo di conoscere l’“altro” in realtà inconoscibile e mutevole, eppure così apparentemente vicino a noi, parte di noi. Tutto il cinema di Malick è una forma di amore per le cose, per lo spazio che abitiamo, la natura, le strade: elementi tanto familiari quanto inconoscibili. Una vita che sfugge tra le dita, ma in grado di aprire squarci di infinita, fuggevole bellezza.

Knight of Cups è cinema girovago, è il cinema del viandante che si interroga sotto una luna fredda e distante, cristallina quanto le luci di un club in cui corpi nudi di ragazze brillano sotto il neon. Il protagonista Rick (Christian Bale) consuma rapporti con una fede improvvisa, ogni volta un luccichio di breve durata: le donne diventano “la donna”, la musa desiderata attraverso la quale decifrare la foresta dei simboli del mondo. La donna dai molti volti, una chiave momentanea per aprire lo scrigno di un “senso” che immediatamente svanisce, seppur lasciando la scia di un ricordo enigmatico e colmo di mistero.

La macchina da presa di Malick è il suo occhio abbandonato ai moti dell’animo: scivola, insegue, si distrae, indugia. E’ uno sguardo che non distingue tra oggetto e soggetto: Rick guarda il mare “grande specchio della mia disperazione”, secondo la lirica di Baudelaire; Rick è nell’aria, nel cielo, nella sua donna. Si può anche non condividere la religiosità dello sguardo del regista, ma non si può non restare ammirati dal suo desiderio di trasformare la propria spiritualità in immagine: e Malick ricorre ad ogni mezzo – dalla ripresa digitale più raffinata, alla videocamera di un cellulare, alla soggettiva della GoPro. E ciò fa di lui un regista più giovane di chiunque, che non tralascia nessuna delle nuove possibilità offerte dal cinema per infrangere le barriere dello sguardo e del pensiero. Perchè scrivere una storia quando il suo cinema ne può contenere mille?

LA GRANDE SCOMMESSA di Adam McKay

bishort1Presente nelle top ten 2015 della maggioranza dei critici americani, La Grande Scommessa è una satira ipertrofica per giustapposizione di stili, logorrea verbale, contaminazione fiction/documentario e moltiplicazione dei livelli narrativi; il tutto frantumato in una miriade di immagini ricomposte in un flusso dinamico che porta le tecniche televisive al parossisimo.

Da un lato, si ammira McKay e il suo team per il tecnicismo infinitesimale e curatissimo del film: un tecnicismo che appartiene alla sceneggiatura, agli incessanti dialoghi, alla professionalità esperta del montaggio serrato. Si può scomporre il film inquadratura per inquadratura ed effettivamente constatare che il progetto, secondo la visione di McKay, è perfetto e strutturalmente solido; ma quanto resta di cinema in La Grande Scommessa?
Siamo lontani anni luce dal maelstrom immaginifico di Scorsese, che aveva trasformato le leggi di Wall Street in un inferno primordiale, in cui impulsi, avidità primitiva, genio umano e isteria moderna turbinavano in una visione cinematografica folle e magmatica. La Grande Scommessa sembra inseguire la pluralità di linguaggi scorsesiana ma McKay, un passato da regista di Anchorman e Talladega Nights, è più vicino alla subliminalità televisiva delle Fox News. E’ indubbio che il suo film sia coinvolgente nel riallestire il famoso “doomsday” del 2008, che cresce come un’apocalisse montante in un’atmosfera di frenesia e incoscienza.

C’è un clima giocoso, in La Grande Scommessa, che vorrebbe temperare la tragicità di un collasso pagato con i sogni e con la vita di milioni di ignari cittadini comuni. Ma McKay cerca di orchestrare la sua satira confondendo storia e racconto, e squarciando troppo spesso la finzione con intromissioni (triviali) di celebrità che ammiccano al pubblico, o con l’intervento di personaggi (Gosling) che espongono direttamente allo spettatore la morale del film. Per oltre due ore e dieci McKay violenta il nostro sguardo, indeciso tra presa diretta degli eventi, camera a mano, e un’anarchia di stimoli visivi che orchestra, con gusto postmoderno, simboli ed oggetti della cultura di massa.
Un film significativo ed emblematico, ma anche un oggetto cinematograficamente spurio, ambiguo ed estremamente compiacente. Un giano bifronte tra denuncia ed esaltazione d’America. Altman e Pollack sono lontanissimi, scomparsi, dimenticati.