HIT AND RUN (1966) di NARUSE MIKIO

Omaggio a Naruse Mikio
Meno conosciuto di Ozu, Naruse Mikio (1905 – 1969) fu un regista di donne osservate con sensibilità estrema, dai sentimenti forti e veri, in lotta contro una società rigida e un destino spesso tempestoso. Il suo cinema nacque all’interno della grande tradizione della classicità giapponese, ma negli ultimi anni della sua lunga carriera (che comprende ben 89 film) il regista si rivelò fortemente attratto dalle nuove tendenze del cinema internazionale. Tra le sue opere più sorprendenti, HIT AND RUN (Hikinige, 1966) spesso liquidato come prova minore, è un thriller modernissimo e stupefacente, un revenge movie crudele e sensibile, un laboratorio di futuro. Il film si apre su Kuniko, vedova e povera, la cui difficile esistenza è illuminata dalla presenza del piccolo Takeshi, il figlio di cinque anni. Parallelamente, ci viene presentata la ricca e viziata Kinuko, moglie irresponsabile e immatura del dirigente della Yamano Motors, mentre sfreccia con la sua lussuosa auto sportiva in compagnia di un giovane amante. Distratta dall’uomo, Kinuko travolge Takeshi e fugge senza prestare soccorso, lasciando morire il bambino. Disperata per la perdita del figlio e desiderosa di vendetta, Kuniko decide di infiltrarsi come cameriera nella villa dove la donna abita con la famiglia.

Questa invasione dello “spazio intangibile e separato” dei ricchi – lo spazio irrazionale del privilegio – anticipa di decenni i temi e l’immaginario di Parasite di Bong Joon-ho (2019). Naruse sceglie di filmare lo scontro di due realtà aliene in un bianco e nero di ghiaccio, tagliente e sovraesposto. Il film ha un’audacia avanguardistica, a partire dalle scene “futuriste” della motocicletta in corsa, anticipazione dell’ebbra velocità dell’auto di Kinuko, fino alla sperimentazione allucinata delle sequenze oniriche. A spezzare il flusso del racconto troviamo tante inquadrature e sequenze di auto sfreccianti: indizi di una velocità che va di pari passo con la disumanizzazione della società. Quello di Naruse, sessantatreenne e malato di cancro, è il desiderio di un cinema puro, emblema del cambiamento.

L’amore del regista per Hitchcock è grande: non solo nella vocazione sperimentale di Hit and Run, ma anche nelle figure del doppio, nel tema della colpa, nella vertigine che fa impallidire i suoi personaggi. Si intravede, inoltre, un fantasma di nouvelle vague in trasparenza: cinema di luce e ombra, di proiezioni dell’inconscio, di flashback intessuti nella struttura narrativa con rara perfezione. I poveri si agitano come insetti, i ricchi sono cinici e distratti: un mondo di ferocia e sofferenza che Naruse asciuga col bianco e nero più netto e grafico, e con un montaggio rapido ma elegante, che lima le asprezze della natura umana. La sua innata delicatezza gli impone di contenere la tragedia per non spettacolarizzarla; con Hit and Run Naruse si conferma un grande umanista, sensibile, per istinto, alla complessità delle cose, e rispettoso dei sentimenti umani.

FIRST REFORMED di Paul Schrader

[Appunti brevi]

Mentre Paul Schrader a Venezia riceve il Leone d’oro alla carriera, torno brevemente sul suo First Reformed (2017), un film che lascia un’impressione indelebile, tra i più importanti degli ultimi anni; cinema libero e irriducibile, capace di calarsi con determinazione nel cuore di tenebra dell’esistenza umana quanto di percepirne la luce, sfiorandola in immagini di struggente geometria.
Schrader conosce il tormento, la vertigine di un pensiero straziato da tensioni opposte. La grazia, la colpa, l’aspirazione a una impossibile redenzione sono scritti sul corpo di Toller/Hawke, osservato da vicino o nel dettaglio di mani che si tormentano, scrivono, toccano. La coscienza cerca riparo nell’esercizio della parola scritta (il diario di ascendenza bressoniana), ma il turbamento dell’anima straripa e travolge ogni forma di luce razionale. Lo spazio è rigoroso, alieno; i corpi vi si muovono in uno stato di perpetua estraneità e le inquadrature ci parlano di una sfasatura senza fine. La presenza divina è astratta e impenetrabile, resa ancor più remota dalle simmetrie architettoniche della chiesa. Toller, come il personaggio di Nicolas Cage in Bringing Out The Dead (1999) non riesce più a reggere il dolore del mondo. Solo l’amore offre un volo momentaneo, staccando Toller da terra in una sequenza di tale audacia visiva da ricordarmi il Fuller più delirante. Come Cage, anche Hawke trova una Mary cui stringersi (e la centralità salvifica della figura femminile tornerà anche in The Card Counter, 2021).
Tanta fragile umanità scuote lo schermo, lasciando una tempesta nello spettatore. “Will God forgive us?”

CORPUS CHRISTI di Jan Komasa

*****
Accade, ogni tanto, che un regista sia toccato dalla grazia. Ed è difficile pensare che Komasa possa realizzare qualcosa di più bello di questo straordinario Corpus Christi (in originale Boże Ciało), un film in cui l’immagine parla e instaura con lo spettatore un confronto incandescente: una visione che è piacere degli occhi, turbamento, riflessione intima e stupore.
Nel raccontarci la trasformazione spirituale di un giovane dal passato brutale e privo di argini etici, il regista si serve di una forma che ha carattere di trascendenza. Nulla è lasciato al caso: la cura compositiva dell’inquadratura, l’uso espressivo e talora mistico della luce, la scelta dei piani e le vertigini prospettiche sono l’espressione visiva del percorso interiore complesso e contradditorio del protagonista: un percorso carico di anomalie e di incertezze bagnate in una fede che si fa strada per vie misteriose e non convenzionali, viva e trascinante come un fenomeno naturale. Il protagonista Daniel ne viene trafitto come da un raggio di sole: è ferito dalla luce.

Daniel/Tomasz accoglie, nonostante il passato e nonostante la consapevolezza d’una natura ferina e incline all’abiezione, il nuovo sentire: il suo dono lo trasforma in servo (nell’accezione cristiana) della comunità di cui diviene guida, all’insegna di un senso nuovo e intatto dell’amore e del perdono. Il regista ripone un ideale, quello della pace (un’astrazione in conflitto con la realtà) nelle mani di una figura che è l’emblema dell’errore e della fallacia umana: ed è proprio nell’imperfezione di Daniel (un Bartosz Bielenia di impossibile bravura) che l’ideale vibra di vita e concretezza, frutto di dedizione/devozione. Il giovane, dallo sguardo al contempo algido e lacerato, diviene un emblema commovente di un’umanità divisa tra pulsioni terrene e desiderio di elevazione: si fa egli stesso Cristo dibattuto tra speranza e buio, tormento e infinità.

Il film delinea tutte le diramazioni di una vicenda in cui gli opposti collidono, si attraggono, si illuminano e corrompono reciprocamente, in una messa in scena carica di un indefinito semantico: per lo spettatore è impossibile non lasciarsi coinvolgere in uno stato di inquietudine riflessiva e tempesta emozionale.
Komasa, grazie alla bellissima sceneggiatura del giovane (26 anni) Mateusz Pacewicz, ispirata a un fatti reali, scarnifica l’ipocrita e falsa religione “dei giusti” in uno scontro non solo dialettico, ma di pura violenza e sangue, con il credo bruciante di un outsider/scarto sociale. Nel suo essere “ultimo”, Daniel è il corpo su cui si accanisce l’efferata natura crudele dell’uomo: un male di cui egli è parte e in cui si dibatte, attratto dalla potenza della Luce.

Il film tratta la sua materia esattamente come Daniel affronta la sua fede: talora lasciandosi vincere dalla Bellezza, altrove registrando la presenza d’una ferocia ineliminabile. Corpus Christi è un film potente, in cui si Komasa incendia le contraddizioni dell’esperienza; ma è anche un’opera commossa sulla infinita fragilità dell’essere che non smette di anelare a farsi Dio.

GODZILLA VS. KONG di Adam Wingard

***1/2
Con il nuovo Godzilla vs Kong si consuma il grande fraintendimento hollywoodiano: di fronte ad una mitologia estranea quanto antropologicamente significativa e dotata di leggi definite, l’imperialismo americano muove verso un’appropriazione che ne riproduce i dati esteriori per adattarli al proprio sentire; assimila, ma senza un’intima comprensione.
Se Godzilla: King of the Monsters, il più vituperato della saga (criticato soprattutto da un pubblico alieno al puro piacere del Monster Movie e alla ricerca di inutili significanze di trama, sociali o narrative) raggiungeva l’estasi della pura forma-mostro, così come veniva teorizzata dagli originali della Toho, il film di Wingard vira verso una più accentuata ibridazione di sensibilità. Godzilla vs. Kong abbandona la ricerca della mistica con cui le creature si sono innestate sull’immaginario collettivo per collassare nella più banale antropologia culturale americana, operando uno spostamento dal mostro all’umano: sia Kong che Godzilla sono strumentali alle vicende umane e vengono, a loro volta, umanizzati nel sentire.

Privati del necessario distacco dalle regole del consorzio umano, i due titani si adeguano ad esse fino a riprodurre una imitazione di dialogo. Kong, nella versione di Wingard, è dotato di una comprensiva saggezza che lo ammansisce: ed è triste notare quanto la necessità hollywoodiana di rendere il prodotto accessibile a famiglie conduca al “disarmo” totale del mostro, soprattutto di fronte a una bambina. La cultura americana (a differenza della società) avvolge l’infanzia in uno stucchevole spazio protetto: penso alla differenza con un film come The Host, di Bong Joon-Ho, in cui la Creatura non si fa scrupolo di violare un bambino. Il Kong di Wingard é invece un gigantesco animale da compagnia che non esita a sacrificarsi: ne risulta una figura nobile, di una saggezza che traspare attraverso l’eccezionale design e la cura degli effetti speciali. Mostro, sì, ma con un dolore interiore, una sofferenza cupa e sospirosa nello sguardo quanto nelle movenze. Questo Kong è un eroe da sturm un drang, una figura addolorata in un pianeta alla deriva.

Più distante e divino Godzilla: ma sempre capace di operare una razionalizzazione e porsi dalla parte degli umani. Un elemento già presente nel capitolo di Dougherty, ma qui esasperato al punto da fare dello scontro finale una sorta di sogno onirico, una devianza bellissima da un film che altrove ci propina ogni sorta di moralismo contemporaneo da cui non sembra più possibile sfuggire, nemmeno nel regno dei kaijū. Banalizzazioni di ecologia, femminismo, diversità, sono non solo l’immancabile decorazione etica ma anche la la pavimentazione narrativa su cui si infrange la ragione d’essere dei kaijū: che è mero terremoto percettivo, apparizione magica, annichilimento di fronte a un fantastico infinito.

Così, mentre si consumano le inutili azioni/funzioni/dialoghi di Millie Bobby Brown, Julian Dennison, Rebecca Hall o Alexander Skarsgård, su cui Wingard erige una struttura di cui nulla ci importa – quella di banali drammi terreni – attendiamo religiosamente l’apparizione: lo scontro finale degli déi, la vertigine spaziale su cui si staglia l’intangibilità del mostro, la sua forza bruta eppure sovrannaturale.
Il combattimento tra Kong e Godzilla, il loro puro e cristallino essere, sprigionano l’unico senso possibile del film; e Wingard realizza, in questi pochi minuti – con il contributo di un comparto tecnico-effettistico d’avanguardia e di un production design d’una bellezza che sfiora vette impossibili – il miracolo di una sequenza perfetta. Luci, visione, colore, pura forma e movimento: i due mostri incarnano tutto il bisogno dello spettatore appassionato di oltrepassare le sue misere capacità percettive e proiettarsi in un cosmo sensoriale separato, in cui l’emozione estetica si sposa ad un godimento primordiale.
Ed è allora che la dimensione dei segni umani – il nero dell’inconscio, il terrore sacro, il senso di colpa primigenio – viene sublimata nella bellezza del kaijū, che non ha bisogno dell’uomo per essere e trionfare; nonostante Hollywood, ma anche nonostante l’assurdità di una scelta italiana che lo ha privato del suo luogo d’elezione: il cinema.