ROBOT DREAMS di Pablo Berger

Conoscevo Pablo Berger per il bellissimo Blancanieves, film muto e in bianco e nero del 2012. Il regista resta affascinato dall’immagine pura, priva di dialoghi, anche in Robot Dreams, in Italia tradotto pedestremente Il mio amico robot; ma questo titolo tradisce la ragion d’essere del film, ovvero il sogno di natura surrealista, materia inconscia che si stringe indissolubilmente al reale tanto da confondersi con esso, in un unico magma di vissuto pulsante e allucinatorio.
Ambientato in una Manhattan paradossalmente “più vera del vero” nonostante i suoi abitanti antropomorfi, Robot Dreams insegue le tensioni della vita, il desiderio, l’amore, le disillusioni. Aderendo fedelmente ai disegni di Sara Varon, autrice della graphic novel originale, Berger crea un film cinefilo e struggente che sarebbe piaciuto a Satoshi Kon (l’artista assoluto di quella “dreaming machine” cinematografica in cui sogno e realtà sono indissolubili). Con una passione debordante per la settima arte, Berger intesse l’animazione di citazioni: da Il mago di Oz a The Shining, dal dolly zoom di Hitchcock alle squisitezze astratte di Busby Berkeley, dal romanticismo di Woody Allen alla follia anarchica di Duck Amuck, celebre cartone metacinematografico di Chuck Jones. Similmente a Duffy Duck, il robot protagonista si “stacca” ed esce dalla scenografia, rivelando la natura della finzione in visioni di sfrenata immaginazione.

Con una regia di puro movimento, Berger segue i personaggi affiancandoli nei piani sequenza, spalanca vertigini con improvvisi zoom, attraversa lo spazio e il tempo in un susseguirsi di panoramiche, dolly, inquadrature dall’alto. Il suo cinema onirico e profondamente umano si affida esclusivamente alle immagini, alle quali consegna l’emozione. Ogni sentimento, percezione e ricordo ha un corrispettivo visivo: Robot Dreams è una dolce dimostrazione di come la mente elabori il vissuto alla maniera di un film. Particolarmente bello “l’intermezzo degli uccellini”, parentesi autonoma e memore della delicatezza romantica de “Il principe felice” di Oscar Wilde; mentre il finale ci offre uno degli split screen più toccanti del cinema recente. Così come altri registi prima di lui (ad esempio Stanley Donen con il suo Indiscreto) Berger ci mostra la possibilità di essere “insieme” anche separati, in una dimensione dove passato, presente e futuro coincidono. Si esce dal cinema in lacrime, commossi e con l’anima più luminosa.

NEGATIVA di Alessandro Baronciani (graphic novel)

negativabar1Un horror che sembra ispirarsi a Alain Robbe-Grillet: una storia il cui tempo è scomposto, le sequenze si ripetono, e soprattutto le parole risuonano in forme incantatorie: parole come oggetti, la cui entità sonora è la musica ipnotica di Negativa – avvolgente, cadenzata in battute, o lacerata in un grido luminoso. Un grido bianco e squarciante: perchè tutto in Negativa ha la potenza grafica del bianco e nero, dissezionato in scala di grigi ma usato prevalentemente nella sua aggressività di assenza di colore, macchia, ombra che si staglia sulla luce.
Cos’altro è Negativa se non la storia di un’ombra? Alessandro Baronciani indaga una delle più importanti riflessioni del contemporaneo, ovvero il rapporto con l’immagine: come afferma Roland Barthes in La camera chiara, nel momento in cui la fotografia immobilizza il suo oggetto, lo coglie “già morto”; un’ottica filosofica che Baronciani fa propria in forme artistiche: vi è un rapporto strettissimo, in Negativa, tra l’immagine fotografica e la morte.

Il digitale ha estremizzato ancor di più il rapporto tra corpo (congelato dallo scatto) e la propria rappresentazione (dunque reso cadavere, privo di vita) in fotografia: Stella, la protagonista, è stata così tanto sotto i riflettori da aver “perso” la propria ombra. Nata da genitori fotografi, non possiede alcun ricordo fantasmatico: tutto è registrato in fotografie, evidenti, luminose, nitide e prive di profondità. Stella è stata privata del suo diritto all’ombra, esattamente come le ragazze che fanno del proprio corpo, esibito in scatti sui social, il cimitero delle immaginazioni. La fotografia come sostituzione della realtà: qui scatta la rivolta delle ombre (un’ “Armata delle Tenebre“, direbbe Raimi), pronte a rivendicare il loro diritto al buio.
negativabar2La particolarità, complessa e raffinata, dell’opera di Baronciani sta nell’obbedire a due impulsi artistici: l’uno più colto, esistenzialista, che impregna l’immagine di vuoto, poetico desiderio del nulla; l’altro invece più carnale, brutale, proteso verso l’horror in senso primario – sangue, carne, incubi: il doppio, in Negativa, risiede tanto in Stella quanto nel suo autore.
C’è, in Baronciani, una memoria che si appiglia ad un immaginario argentiano fatto di lame che brillano al buio, aghi che si conficcano nella pelle, presenze indistinte e portatrici di sofferenza. C’è anche un Sabba femminile – la rivincita del buio arcano, la danza delle ombre, la riconquista di un corpo segreto. Baronciani compone inquadrature che eccedono lo spazio, si estendono in quadri sghembi e fortemente espressionisti.

Negativa è la testimonianza di un difficile equilibrio – quello tra nero e luce, tra mistero e nitida evidenza. L’arma del fotografo ferisce e deruba; la società continua a consumare immagini in cui il nostro io svanisce. Stella affoga, poi ritrova pace nell’infinito di una spiaggia; la copertina racchiude la chiave di una storia pronta a ripetersi. Baronciani si conferma come uno dei più fini indagatori dell’anima femminile: i volti pudichi delle sue ragazze, gli sguardi abbassati, le bocche socchiuse morbidamente in un silenzio, sono indizi di tormenti che, come direbbe il poeta Dylan Thomas, esprimono una forza distruttrice. Donne come fiori di giovinezza, ma anche insondabili abissi in cui l’identità sembra tremare. Negativa cerca questo io perduto: con la violenza del sangue.