“Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo”: il cinema di Ozu Yasujirō

Una nuova “dedica a Ozu” in occasione dell’anniversario: la Tucker porta al cinema, in versione restaurata, Tarda primavera (1949), Viaggio a Tokyo (1953), Fiori di equinozio (1958), Buon giorno (1959), Tardo autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962), cui si aggiungono anche i meno noti Una Gallina nel vento (1948), Inizio d’estate (1951), Il sapore del riso al tè verde (1952), Inizio di primavera (1956) e Crepuscolo di Tokyo (1957).

Tempo fa mi colpì questo commento di un utente su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero: è il primo effetto che fanno, e lo notò anche il regista iraniano Kiarostami. Ogni film di Ozu è espressione del suo amore per la vita e per gli esseri umani, come testimonia un’intervista pubblicata nel 1949 su Asahi Geinō Shinbun : “Vorrei ritrarre il fiore di loto nel fangoVorrei riflettere a fondo sulle cose e ritrovare quella ricca umanità che le persone hanno per natura…”.
Non si tratta solo un cinema gentile, ma anche attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare solo per il suo valore storico o culturale. La visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.

Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono anche i nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.

Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa (nella sua tipica posizione “bassa”), dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non si serve di modalità soggettive.
Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte la figura umana è di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una ripresa frontale non sa esprimere.

Nelle sue opere ogni linea dell’inquadratura, ogni geometria risultante dalla composizione, ogni pieno e vuoto e ogni oggetto – inclusa la “presenza” umana, talora reificata in un nulla compresente alle cose – converge nel creare un sottile universo percettivo: l’aspetto magico del suo cinema è il rigore della messa in scena, che si fa più radicale nelle opere del dopoguerra, in un passaggio graduale dalla sperimentazione alla semplicità.
I limiti dell’inquadratura esistono. Come mostrare le cose con e dentro tale cornice? Escludere lo spazio che non puoi mostrare all’interno dell’inquadratura può essere interessante, e questa è la mia scelta.” [Intervista su Kinema Junpō, agosto 1958]

Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: le donne dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccate in uno spazio e costrette dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.

La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso di Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.

La malinconia del vivere permea le immagini del suo cinema: compito degli esseri umani è accettare la transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo.
Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara: si tratta, piuttosto, di un sentimento del vivere, come un’ombra nella serenità o un transitorio senso di gioia, oppure un sollievo che rincuora esattamente come una nuvola lascia emergere il sole. Ozu non sfrutta mai, né strumentalizza i suoi personaggi; non se ne appropria, come spesso accade in tanto cinema contemporaneo.
Quando li osserviamo, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo indeterminato e passeggero: secondo Ozu, “il regista non deve tirar fuori i sentimenti dagli attori, deve contenerli” (Kinema Junpō, 1947). Allo stesso tempo, la sua sensibilità lo porta a lasciare agli spettatori un indizio, un elemento che possa informarli del carattere dei protagonisti: il modo in cui portano alla bocca un bicchiere di saké, si tormentano i guanti o camminano (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante (si pensi all’emozione di Kyō Machiko mentre accende la sigaretta all’amato in Erbe Fluttuanti, Ukigusa, 1959).

Il cinema di Ozu avvicina le persone, annulla le distanze culturali e l’abisso del tempo. Tanta è la capacità del regista di studiare l’animo umano da farlo splendere come un fiore al centro dello schermo: la corolla sbocciata (lo splendore della giovane Noriko in Tarda Primavera, Banshun, 1949) o gualcita al tramonto (il dolore di Akiko, sola e afflitta in Crepuscolo di Tokyo, Tōkyō boshoku, 1957). L’opera di Ozu, così umile ed essenziale, continua nel tempo a toccare corde profonde: “Un film è fatto delle impressioni che rimangono dopo” (Tōkyō Shinbun, 14 dicembre 1962).

Bibliografia:
Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Donzelli, 2016
Yasujirō Ozu, Dario Tomasi, Il Castoro, 1996
Film:
I lived, but… (Ikite wa mita keredo: Ozu Yasujirō den, regia di Inoue Kazuo, 1983), Shōchiku

Due film di Misumi Kenji: DESTINY’S SON (1962) e KEN (1964)

Qualche riflessione su Misumi Kenji, cui mi sono avvicinata da poco, protagonista del #CinemaRitrovato della Cineteca di Bologna. In DESTINY’S SON (KIRU, 1962) trovo impressionante il suo controllo formale, l’uso dello spazio e ancor di più dello sguardo degli attori, che sembrano sempre rivolgersi a un “oltre” fuori campo. Anche nei dialoghi, gli attori non incrociano mai davvero gli sguardi, ma li “lanciano”, con una lieve sfasatura, in un infinito spirituale; lo spazio come possibilità, ricerca di futuro, dimensione altra in cui i protagonisti tentano di proiettarsi. La morte rappresenta, in questa visione, una brusca interruzione dell’esperienza terrena, ma anche un anelito a un aldilà forse più giusto, dove i destini potranno comporsi. Ma nel frattempo la vita è tragica e frammentaria (Misumi la traduce in narrazione episodica, intervallata dall’immagine di un sole implacabile, che “splende sulle sciagure umane”) e i personaggi vagano in destini labirintici (si veda la bellissima sequenza prefinale).

C’è, in Misumi, un forte senso di disvelamento della finzione, ad esempio attraverso le inquadrature dall’alto che ci mostrano le stanze come set cinematografici o teatrali, separati da porte che si aprono e chiudono, quasi fossero fondali; e c’è anche una netta stilizzazione coloristica, con grafismi intensi, linee affilate e grandi contrasti cromatici. Ad accentuare questa precisa vocazione formale interviene poi la colonna sonora, dai suoni elettronici e freddi: note glaciali sembrano ingoiare il tempo e la storia, raggelandoli in un racconto che si ripete eterno, in un ciclo di morte e astrazione. Protagonista d’elezione di Misumi è Ichikawa Raizō, proveniente dal teatro Kabuki (dove non riuscì a sfondare perchè “troppo giovane”) e anch’egli una sorta di strano personaggio errante, orfano, dal destino tragico: muore di cancro a soli 37 anni, all’apice della fama, adorato soprattutto per la vulnerabilità che i suoi caratteri erano in grado di emanare. Un volto pieno di grazia.

Nel 1964 Misumi realizza KEN (da un racconto di Mishima) uno dei suoi rari gendaigeki; ma una serie di inquadrature (le immagini del sole, i combattimenti, i primissimi piani) testimoniano il legame con Kiru (Destiny’s son, 1962), attraverso una riproduzione quasi shot-by-shot che è una dichiarazione di continuità. Privo dei colori intensi di abiti ed interni, della delicatezza pittorica dei quadri naturali e dell’azzurro del cielo, Ken sceglie un bianco e nero contrastato con il quale raffigurare la laconicità del presente. Spogliato del suo costume storico, del trucco e dell’acconciatura, Ichikawa Raizō (nel ruolo di Kokubun, capitano di una squadra universitaria di Kendo) appare a disagio, ancor più vulnerabile e pensoso.

Se nel mondo feudale la disciplina e gli ideali di purezza erano valori inattingibili che magnificavano l’eroe, conferendogli tratti divini, negli anni ’60 il personaggio interpretato da Ichikawa Raizō è considerato dalla maggioranza dei suoi simili alla stregua di un disadattato. Il mondo è cambiato, la nuova gioventù è cinica e anticonformista; il rigore degli allenamenti di Kendo, la violenza che li presiede, l’ascesi simile a un martirio cui aspira Kokubun sono retaggi di un passato che appare incomprensibile. Eppure quanto fascino in queste dure scene di allenamento, quanta spiritualità, seppur deragliata. Il piccolo esercito di guerrieri turba la quiete sonnolenta del villaggio sul mare; la loro nera silhouette si insinua nel paesaggio. Kokubun “vive” solo quando è perfettamente calato nel suo ruolo eroico, all’interno della classe di Kendo – e difatti il suo rivale Kagawa lo odia e lo ammira al tempo stesso, con un trasporto che ha una componente fisica e omoerotica. Lo spazio di Kokubun – una dimensione impenetrabile, fatta di rigore e sottrazione – resta confinato in un “oltre” sovrumano – o forse troppo umano: “Gli uomini si suicidano così facilmente?” “No, solo i molto deboli o i molto forti.”

LA DONNA NELLA RETATA (Hijōsen no Onna, 1933), OZU Yasujirō

Articolo pubblicato in occasione del restauro del film, proiettato al festival “IL CINEMA RITROVATO

Sono diventato assistente di Ozu ai tempi di La donna nella retata (1933). Lo ammiravo enormemente ma rimasi sorpreso da quanto fosse duro il lavoro. (…) Ozu continuava a spostare gli oggetti dopo ogni ripresa: c’era questo quadro su una parete, e lui continuava a spostarlo di una frazione di centimetro. (…) Se fare cinema è così problematico, io smetto!, pensai; e chiamai la mia famiglia per dirglielo.”(Kinoshita Keisuke, intervista contenuta nel documentario I lived, but…, 1983.)

Nel comporre un’immagine Ozu si faceva carico di tutto: l’arredamento degli spazi, ornamenti e carte da parati, disposizione millimetrica di ogni elemento all’interno dell’inquadratura, trucco e costumi degli attori. Una meticolosità che fece impazzire molti suoi collaboratori, e che troviamo anche nelle sue prove di genere. È bello vedere Ozu alle prese con il gangster movie, da lui molto amato (aveva già realizzato Passeggiate Allegramente!, 1929, e La moglie di quella notte, 1930) e di cui propone una personalissima versione. Se formalmente i codici vengono riprodotti con grande attenzione – fotografia chiaroscurale, economia del racconto, recitazione stilizzata degli interpreti e attenzione al contesto urbano – il film contiene segni del suo cinema futuro e rivela la sua propensione allo studio dei rapporti umani e familiari.

Tokiko (Tanaka Kinuyo) è una splendida e gelosa donna del bandito, sorta di Jean Harlow amorale ma segretamente alla ricerca di una redenzione; a lei si contrappone Kazuko (Mizukubo Sumiko), la brava ragazza innocente (alla Janet Gaynor) che suscita in Joji, il gangster, una profonda crisi morale.
In questa “relazione a tre” quasi lubitschiana, Ozu mescola non solo carrellate, prospettive inedite, profondità di campo, ma anche una varietà di influenze: ci sono immagini spersonalizzanti di uffici, scrivanie e centinaia di impiegati come ne La folla di King Vidor; sfilate astratte di cappelli e di macchine da scrivere, porte che si aprono e si chiudono a suggerire la “sinfonia di una grande città”; sequenze comiche (quelle ad esempio in cui Ozu “gioca” visualmente con l’immagine del cane Nipper, simbolo della celebre etichetta discografica RCA Victor); ma è forte anche la suggestione del melodramma spirituale alla Borzage.

La vicenda si dipana in notti ambigue e misteriose, tra gangsters e locali fumosi: si intuisce l’influenza di Josef von Sternberg nell’uso della luce. Trionfa però la passione di Ozu per i sentimenti e le emozioni umane, i confronti in interni, gli sguardi e i dettagli. Elementi apparentemente casuali sono metafore di stati d’animo e sentimenti (una scarpa abbandonata sul pavimento, un’insegna dalla luce intermittente); l’aspirazione dei personaggi è a una vita migliore, alla “luce del sole”, lontana dai vicoli e dalle tenebre.

Regia:  Ozu Yasujirō; Soggetto.: James Maki [Ozu Yasujirō]. Sceneggiatura: Ikeda Tadao. Fotografia: Shigehara Hideo. Int.: Tanaka Kinuyo (Tokiko), Oka Joji (Jyoji), Mizukubo Sumiko (Kazuko). Prod.: Shōchiku.

SHE WAS LIKE A WILD CHRYSANTHEMUM di Kinoshita Keisuke (1955)

L’amore di Kinoshita per il cinema, il suo sentimento nostalgico e umanista e l’inclinazione a rivelare la bellezza del mondo, anche nei suoi aspetti più umili e naturali, lo conducono alla realizzazione di She was like a wild chrysanthemum, tra le sue opere più belle, fragili ed evanescenti. L’intero film è una passeggiata fantasmatica nel passato e nel cuore umano, che trasfigura una dolorosa storia d’amore giovanile nel rimpianto e in una poetica accettazione del destino.
Ormai anziano, Masao torna alla terra natale, attraversando su una semplice barca i paesaggi del passato: rivede le coste, i campi, la vecchia casa abbandonata e ritenuta dagli abitanti del villaggio “una casa posseduta”. I ricordi agitano la sua mente, dagli occhi spuntano lacrime. Ryū Chishū è l’interprete miracoloso di un personaggio che non eccede mai nell’espressione dei propri sentimenti: dignitoso, composto, lascia intuire una sofferenza muta attraverso la postura appena curva e un volto intensamente segnato dalla tristezza. È impossibile restare indifferenti di fronte ai primi piani del suo viso rigato dal pianto. Masao ha preso la forma del dolore che lo ha accompagnato per tutta la vita, diventando il corpo dell’amore.

Ci penso ogni volta che arriva l’autunno. È qualcosa che non potrò mai dimenticare. Sono passati più di 60 anni… Mi sono rimasti solo i sogni del mio passato. Sei stato l’unico amore della mia vita, vivrai per sempre nel mio cuore.”
Attraversando il fiume luccicante di sole, nell’aria dolce di un autunno che sembra volerlo confortare e offrirgli un rifugio sospeso nel tempo, Masao ripercorre i propri ricordi sino a renderli vivi e presenti, sonori e visivi. L’uomo rivede se stesso appena quindicenne, accompagnato dalla gentile e delicata Tamiko, la cugina diciassettenne con la quale è cresciuto. Un mascherino bianco ovale, vera e propria aura spirituale che incornicia l’immagine, è l’espediente tecnico di cui Kinoshita si serve per fare del suo racconto un viaggio nella memoria e nel sogno. Il ricordo si circonda di un candore intangibile, il passato si fa allo stesso tempo distanza, luce, visione ultraterrena. Come un cantastorie, Masao traduce in versi poetici la storia triste dei due innamorati, sullo sfondo di un Giappone rurale – gentile di fiori e silenzi – ma irrigidito in una mentalità severa e feudale.

Attraverso il mascherino e la narrazione lirica ma asciutta di Masao, la storia d’amore assume i contorni di un racconto popolare: una storia di innocenza e crudeltà, che vede i due giovani divisi dalle malevole chiacchiere del vicinato, dalla gelosia di una cognata, e dalla mentalità retriva di una madre amorevole ma incapace di concedere la sua approvazione alla relazione. Tamiko non solo è più grande di Masao, ma anche di grado sociale inferiore; il suo destino è la sottomissione.
Per impedire che il rapporto possa continuare, il ragazzo viene inviato in una scuola lontana, mentre Tamiko è costretta ad accettare un matrimonio combinato, utile per l’economia familiare.
La separazione causa in entrambi un’infinita sofferenza, espressa attraverso il pianto e il silenzio. Kinoshita inserisce nel racconto immagini naturali (meravigliosamente fotografate da Kusuda Hiroshi): le colline immote, i cieli sereni, mentre carrelli attraversano i campi fioriti, accarezzati dal vento. Ogni filo d’erba, ogni corolla curvata sembra condividere il destino di accettazione e sofferenza dei ragazzi, fiori a loro volta: se Tamiko è, nelle parole di Masao, un crisantemo selvaggio, a sua volta il ragazzo viene da lei paragonato a una campanula: “Non mi ero resa conto che le campanule fossero così belle.”

La colonna sonora di Kinoshita Chūji (fratello di Keisuke e suo stretto collaboratore) accresce, con la sua malinconia, l’atmosfera elegiaca di resa: i due giovani non si ribellano ma si piegano alle decisioni e al sarcasmo della comunità. Rimasti soli, sfioriranno giorno dopo giorno, privati di quella felicità data solamente dall’essere vicini, trafitti dalla bellezza della luce. Quella di Masao e Tamiko è la storia di un amore tanto innocente quanto istintivo: i due ragazzi vivono l’uno dell’altra come il mattino gode della rugiada; la loro attrazione è una necessità, un bisogno naturale di presenza, di voci, di sfioramenti.
Masao, dal suo dormitorio lontano, scrive una lettera a Tamiko: “stare con te era come essere su una nuvola assieme a Dio”. In queste parole, l’essenza di un sentimento totalizzante e vitale, che vede l’amore come la vita stessa, proiettata nell’ immortalità. Un sentire poetico che ricorda i versi di Emily Dickinson, secondo la quale l’anima cerca la sua compagnia, senza la quale non può vivere. Per entrambi, l’allonanamento è un gesto contro natura che si traduce nella morte: dello spirito e del corpo.

Kinoshita filma con tutta la delicatezza possibile, ma anche con una sensibilità estrema nei confronti di un romaticismo struggente ma quieto, spiritualizzando il sentimento attraverso il mascherino bianco, ritagliando al suo interno geometrie e split-screen dati da oggetti, arredi o colonne: l’incubo della separazione si staglia nelle inquadrature. Le carrellate, i frequenti piani sequenza e i silenzi ci ricordano che tutto scorre e tutto ha una fine, ma l’universo accoglie il pianto e l’amore, conservandoli nell’eternità.
Sulla tua tomba tutto è silenzio, ora solo cantano i grilli”