
Addio a Gena Rowlands (19 giugno 1930 – 14 agosto 2024)
Nella Hollywood delle Norma Desmond e delle Fedora, della stigmatizzazione dell’invecchiamento della star (così ben raccontata da Billy Wilder) e del ruolo ancillare della donna, Gloria traccia un deciso rovesciamento delle convenzioni. Straordinariamente moderna, Gloria anticipa quella feticizzazione e romanticizzazione del killer che trova, in età contemporanea, il suo culmine nel Ryan Gosling di Drive (2011): ma Cassavetes ne scrive i codici in chiave femminile. Misto di tenerezza e ferocia implacabile, Gloria è taciturna, introversa, tormentata dal passato eppure pronta a estrarre la pistola per una giusta causa. Vestita di raso firmato Ungaro, in tacchi alti, Gloria è bionda come la Lana Turner del criminale Johnny Stompanato; ma al posto di una tremula subalternità, esibisce l’impertubabilità del killer.
In Gloria John Cassavetes ricrea, non senza ironia, l’Atena mitologica, la figura di donna-guerriera che Hollywood aveva deposto a favore di un’immagine di femminilità disarmata, ammiccante e debole. Gloria non ci sta: è lei the lone rider, il cavaliere solitario di una New York malinconica e mortale. Originariamente concepito come script su commissione, il film divenne non solo un’opera assai amata dalla sua interprete (la Rowlands conservava il poster di Gloria nella villa di Hollywood Hills, accanto a quello di Love Streams), ma anche una meravigliosa variazione sul tema del rapporto adulto/minore nell’ambito del cinema di genere. Gloria si inserisce nella traiettoria di eroi stanchi e malinconici riscattati dall’innocenza del proprio giovanissimo partner in crime: ne fanno parte Shane di George Stevens (1953), Il Grinta di Henry Hathaway (1969), Leon di Luc Besson (1994, dichiaratamente ispirato al film di Cassavetes), fino al Logan di James Mangold (2017). Una via lattea di stelle al maschile, in cui Gloria brilla ostinata.
A chi poteva interessare un film su una donna di mezza età? In fase produttiva, Cassavetes si trovò ad affrontare l’esitazione degli studio com’era già accaduto per A woman under the influence (1974, prodotto in forma del tutto indipendente). Dopo numerose discussioni, Gloria fu acquistato dalla Columbia a condizione che la Rowlands interpretasse la protagonista. Il progetto divenne quindi, per Cassavetes, un lavoro d’amore: una dichiarazione tanto sentimentale quanto artistica per Gena, musa e compagna in cui riconosceva un linguaggio comune – quello di un cinema vivo, dalla messa in scena invisibile (ma presente) e innamorato degli esseri umani: volti, corpi colti in ogni fugace riflessione o sfumatura emozionale. Un cinema in grado di catturare le tensioni presenti nell’aria e riscriverle come contrappunto musicale; immagini che interpretano lo spazio e il tempo in forma soggettiva, vissuti direttamente dai protagonisti, di cui Cassavetes sapeva cogliere il flusso di coscienza nel suo farsi.
Gena, con le sue insicurezze, la sua preoccupazione di “non essere in grado” che talora la attanagliava, il suo desiderio totale, persino politico, di rendere giustizia alle donne che rappresentava, muoveva John fino alle lacrime. Queste emotività svanivano non appena iniziavano le riprese: allora la Rowlands diventava il personaggio, spesso conservandone carattere, movenze, abbigliamento anche fuori dal set. Nel caso di Gloria, l’attrice rimase sempre rigorosamente in parte per non turbare il giovane coprotagonista Juan Adames/Phil e mantenere quell’istintiva affinità elettiva tra caratteri. L’incontro tra Gloria e Phil escludeva qualsiasi sentimentalismo per sprigionare un amore più autentico e più difficile: privato delle ipocrisie ricattatorie di quel cinema che aveva sempre trattato i bambini come ricettacoli di facili emozioni, il rapporto attraversava durezze, incomprensioni, pulsioni delicate e talvolta indicibili.
“Gena è sottile, delicata. E’ un miracolo. E’ diretta. Crede nelle cose in cui crede. E’ capace di tutto. E’ solo grazie all’enorme capacità interpretativa di Gena che abbiamo un film: altre persone non hanno abbastanza carattere per questo lavoro. Datele qualunque cosa e sarà sempre creativa, per via del modo in cui pensa. (…) Gena si dedica completamente, è molto pura. Non le interessa sapere dov’è posizionata la macchina da presa, non le interessa venire bene, non le interessa assolutamente nulla se non diventare credibile. Quando nel film è pronta ad uccidere, mi sconvolge la sua assoluta freddezza.” (Cassavetes on Cassavetes, Ray Carnes, 2001).
Ma chi è Gloria? Ex showgirl, ex amante del boss Tony Tanzini, Gloria vive in un palazzo popolare del South Bronx, dove ha stretto amicizia con una famiglia di portoricani, i Dawn. “Non mi piacciono i bambini” è la prima frase pronunciata da Gloria di fronte al piccolo Phil; ma quando la mafia ne stermina l’intera famiglia, questa donna sul viale del tramonto diventa una furia. E non è un caso che Cassavetes abbia scelto per la sua protagonista il nome “Gloria Swenson”: una variazione sghemba della Gloria Swanson di Sunset Boulevard (1950). Nelle due ore di durata vediamo Gloria e Phil vacillare su reciproche diffidenze, annusarsi, respingersi, tentare goffamente tenerezza. Phil la osserva con la fragilità dell’infanzia e con la curiosità della pubertà, fatta di desideri indistinti, impulsi carnali, velleità adulte. La fuga li spinge a condividere insieme la notte, ed è nella penombra di una camera che Phil, ammaliato dalla bellezza e dal coraggio “maschile” di Gloria, pronuncia parole impensabili nel cinema di oggi: “Sei mia madre. Sei mio padre. Sei mia madre. Sei tutta la mia famiglia. Tu sei mia amica, Gloria. E sei anche la mia ragazza”.
Cassavetes li riprende lasciando confluire, in uno stile solo apparentemente più “commerciale”, tutta la volubile ricchezza in fieri della loro relazione. Trattiene immagini l’una sull’altra, in lunghe sovrimpressioni (a suggerire emozioni che permangono); esplora New York in piani sequenza elaborati, ad esempio la sequenza della fuga, libera e mobile come una partitura jazz; immerge la Rowlands in notti dalle luci al neon, tra rossi struggenti; la inquadra in piano americano, poi a figura intera, rivelandone l’eleganza sgualcita dai confronti a fuoco: ma Gloria è ancora più bella con la camicia aperta e il ciuffo biondo che cade ribelle sullo sguardo, rimembranza d’una fatale Veronica Lake che lentamente svanisce. Il regista gira due finali – in bianco e nero e a colori – ma per entrambi sceglie il lieto fine: “non volevo che il ragazzino soffrisse; che film sarebbe stato?”



