FOR THE RIGHT DAMAGED EYE (1968) di Matsumoto Toshio

Nell’ambito del Pesaro Film Fest 2024, all’interno della sezione dedicata al cinema sperimentale, è stato presentato il corto di Matsumoto Toshio For the damaged right eye (1968). Matsumoto, principalmente conosciuto per Funeral Parade of Roses (1969) – un film unico, che muove dalla classicità dell’ Edipo Re per frantumarla e reimmaginarla in schegge di onirismo, visioni sussultorie, orge psichedeliche – anticipa la sua visione nera e cosparsa di tragico humor nel suo cinema sperimentale. For the damaged right eye, realizzato un anno prima del lungometraggio, è un’opera sinestetica che si sviluppa su una molteplicità di piani di rappresentazione. Non solo il film si compone di due film proiettati in sincrono l’uno accanto all’altro, ma un terzo proiettore sovrappone il proprio fascio di luce alle immagini giustapposte, offrendo una sublimazione coloristica e diafana alla violenza convulsa che scorre davanti ai nostri occhi. A sua volta, la colonna sonora si presenta come ulteriore sollecitazione sia per i nostri sensi che per il pensiero, stabilendo la sua autonomia o creando un perturbante contrasto con le componenti visive.

Il lavoro di Matsumoto è tutt’altro che pretestuoso e si inserisce in una filosofia di cinema-rasoio, volto a ferire lo spettatore fino a lasciarlo sanguinante, colmandolo però anche di poesia. Immagini portatrici di malattia, stralci di documentario, di notiziari televisivi convivono con il gesto quotidiano; lotte studentesche sono affiancate a corpi nudi, il porno e la rivoluzione abbracciano lo stesso schermo, così come l’orrore di deformità, morte e distruzione. La guerra, volti bruciati, scorrono in un cut-up mentre il sonoro si offre rassicurante nella forma di commercial. La schizofrenia del vivere è rappresentata in modo fulgido da Matsumoto, che nella tragedia dell’esistenza continua a intravedere, come farà anche in Funeral Parade of Roses, la bellezza dell’amore, le tracce radianti della poesia, il dolore in forma pudica di lacrima. Tutto convive nel cinema di Matsumoto: tristezza e ferocia, innocenza e corruzione. Con For the damaged right eye, la sua irruenza di cineasta lo porta a tentare il cinema multisensoriale, consapevole che la brutalità di quegli anni (il film fu girato in pieno ’68) necessitasse di una rappresentazione radicale, in cui far confluire sensazioni, visioni, schizofrenie percettive, ribellione giovanile.
Regista di incommensurabile audacia, poeta e visionario, sperimentatore e avanguardista, Matsumoto creò tecniche e stili di cui troviamo tracce nelle forme audiovisive contemporanee, private però di quella sostanza etica che nei lavori del regista giapponese emergeva, lacerata, tra le fiamme della visione.

THE WOMAN IN THE RUMOR, Mizoguchi Kenji (1954)

Film del 1954 e ultimo film di Mizoguchi interpretato da Tanaka Kinuyo, che per il regista incarnò moltissimi personaggi differenti – geishe, contadine, mogli ridotte in povertà, amanti tradite, prostitute, madri – donando a ciascuna di loro un carattere intenso e unico, complesso e chiaroscurale. Mizoguchi spesso confinò le sue figure femminili in un astratto idealismo e martirio; ma Tanaka era un’artista troppo intelligente per non sfuggire a tale prigionia attraverso la ricchezza densa e profonda, talora misterica, delle proprie interpretazioni. Anche Hatsuko, la “mistress” di The Woman in the Rumor, è una donna dalla personalità sfumata. Coordinatrice inflessibile di un bordello di lusso – una tradizione di famiglia che rivendica con orgoglio – Hatsuko conosce però i tormenti e l’infelicità dell’amore, e nutre segretamente il sogno di una vita “rispettabile” e di un impossibile matrimonio con un dottore più giovane di lei. Nel bordello è ospite la figlia di Hatsuko, Yukiko: una ragazza dall’aspetto elegante e urbano, istruita e sensibile, ostile alla professione materna che però le ha consentito di portare a termine gli studi. Anche Yukiko è dunque un personaggio che vive di tensioni opposte e inconciliabili, divisa tra il privilegio della propria posizione ed il disprezzo per l’attività del bordello, che di quella posizione è il fondamento economico.

Mizoguchi, nel tratteggiare con grande finezza ogni aspetto delle due protagoniste – dai kimono variopinti e sensuali della sorridente Hatsuko ai completi scuri e rigorosi di una silenziosa e ombrosa Yukiko – ci pone davanti a due caratteri che mutano davanti ai nostri occhi, talora ponendosi in aperta opposizione, altre volte confondendosi fino a scambiarsi i ruoli. Entrambe innamorate del giovane ed opportunista dottore (un altro di quei personaggi maschili vili e mediocri che costellano la filmografia di Mizoguchi), madre e figlia troveranno nel sentimento la chiave per mettersi reciprocamente a nudo, scarnificarsi, fino a rivelare un nucleo di verità che le porterà a comprendersi e avvicinarsi. Le due donne diventano quindi parte di un’unica personalità femminile dalla natura multiforme: istintiva e materna, passionale e protettiva, cinica e innocente al tempo stesso. Questo confronto graduale, via via più intenso sino a diventare emotivamente sconvolgente tanto per i personaggi quanto per lo spettatore, prende vita in un contesto spaziale – quello dell’ampio e labirintico bordello – che Mizoguchi filma con una maestria a sua volta imperscrutabile e rarefatta. La sua macchina da presa si pone a distanza per registrare uno spazio profondo, attraversato ora da linee rette, ora da prospettive oblique. Gli elementi in scena sono numerosi e stratificati: in una singola inquadratura vive una complessità di gesti, storie, di figure umane in primo piano o sullo sfondo. Mizoguchi seziona l’immagine, la stringe grazie a porte, elementi architettonici o dell’arredo; le esistenze pulsano e scorrono dietro una tenda, in fondo a corridoi, ai margini o al centro dell’inquadratura. Le prostitute appaiono non solo come corpi di consumo, ma ciascuna di esse ha una sua specificità, un momento di gloria dato da un gesto significante, una riga di dialogo struggente o da brevi quanto vivide sottotrame.
I piani sequenza si muovono assecondando la pluralità di vicende umane, l’incrocio di destini: sullo schermo passa la Storia, quieta e dolorosa, fatta di ombre e pianti, mentre un cielo notturno particolarmente opaco (bellissima la fotografia di Miyagawa Kazuo, che predilige un buio grigio e privo di romaticismo) ne è testimone distante e immoto.