VOICES IN THE WIND di Nobuhiro Suwa

Presentato alla Berlinale del 2021, Voices in the wind (2020) è un’opera di grande bellezza e che certamente meritava una distribuzione italiana. Diretto da Nobuhiro Suwa, il film (in originale “Il telefono del vento”) segue il peregrinare di Haru, adolescente sopravvissuta allo tsunami del 2011 e sofferente per la perdita della sua famiglia: madre, padre e fratellino. Senza più riferimenti né affetti, Haru inizia un viaggio accidentale attraverso il Giappone: guidata non da volontà, ma da un senso di abbandono che la precipita lungo le strade o in compagnia di sconosciuti. Priva di un soffio vitale, anche lei “già morta”, presenza fantasmatica e segnata in viso dal dolore, Haru è una Madonna dal volto rigato dalle lacrime. L’interpretazione di Motola Serena è sconvolgente: la sua Haru esprime una sofferenza spirituale e mistica, che la distacca dalle cose del mondo. Il corpo cade, c’è quasi un’impossibilità di stare in posizione verticale: come scriveva Sylvia Plath, la ragazza cerca naturalmente il cedimento orizzontale, il contatto con il suolo, la terra, una conversazione finale coi fiori.

Il regista Suwa muove la macchina da presa in grande libertà: tra strade e paesaggi naturali, tra chioschi e bar dove Haru viene sospinta per inerzia dallo scorrere delle cose. Volti, incontri: chi si cura di lei, chi cerca di violarla. Suwa ama l’improvvisazione e filma dialoghi interrotti, cerca l’emozione che si annida nella parola e la spezza. Talvolta, in interni, blocca Haru nel carcere del suo dolore, inquadrandola come cosa tra le cose, imprigionata tra le geometrie di una parete, marginalmente come una presenza invisibile. Ma più spesso segue il suo girovagare documentando, macchina a mano, la condizione di erranza della ragazza, il suo essere corpo estraneo in una terra che assomiglia a un limbo. La condizione umana è quella del desiderio mancato, di una tensione struggente che possa cancellare la sofferenza: raggiungere i propri cari, superare la separazione dall’amore, toccare la morte per abbattere il confine tra le dimensioni. Dopo aver conosciuto altri sopravvissuti, dormito su treni e sedili di auto, Haru giunge al “telefono del vento”, situato a Ōtsuchi, nella regione di Tōhoku: lì, ogni anno, migliaia di persone vanno a cercare una conversazione con chi non c’è più, per sentire la voce che gli è cara. Nel soffiare del vento, chi può dire che non siano proprio i morti a sussurrare parole di conforto?

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