***
Rispetto a tante opere prime, The Nest – Il Nido percorre un sentiero a ritroso: non si tratta di un film che parte da un’idea per creare una forma, bensì di un’opera in cui la forma è il film stesso, il contenuto che veicola, l’idea di cinema che il regista De Feo vuole comunicare. In tempi come questi, di prevalenza del racconto, un film del tutto sospeso nelle suggestioni formali è un oggetto dal fascino profondo e indefinito: The Nest vuole essere principalmente visione – luce, colore, composizione dell’inquadratura, lentezza dell’esplorazione spaziale. Ogni scena nasce come tableau vivant che prende vita quasi inaspettatamente: per De Feo è essenziale la presa sui sensi dello spettatore, mediante una qualità pittorica e tattile delle immagini. Villa dei Laghi è il non-luogo del sogno/incubo cinematografico: un’apparizione anomala in senso spaziale e temporale, il correlativo oggettivo di un film che passa davanti ai nostri occhi come immerso nel ricordo, già passato. La lente di De Feo è una triste nostalgia, la stessa che si prova leggendo le poesie dei nostri poeti scapigliati, in cui la morte, la separazione dalla società triviale, l’aspirazione al “suicidio” inteso come ribellione ultima impregnavano le stanze dei loro componimenti in versi.
Qui, le stanze di De Feo racchiudono personaggi già votati ad una fine, ciascuno alla ricerca di un personale Ideale cui tendere in una tensione funebre e impossibile: meravigliosa Francesca Cavallin, che porta al personaggio della madre (una madre dolorosa, una messaggera della tenebra, in bilico tra crudeltà e follia) una grazia severa colma di inquietudini. Il suo sguardo, l’incedere aristocratico, gli inaspettati ripiegamenti in una vulnerabilità infantile conferiscono alla sua Elena una suggestione antieroica romantica e cupa: ella è il Caos, lo sturm-und-drang emotivo disciplinato in neoclassico rigore. Nei panni del giovane Samuel, Justin Korovkin si rivela un sensibile, giovanissimo Werther il cui risveglio alla vita e al turbamento sensuale è dato dall’arrivo dell’adolescente Denise (Ginevra Francesconi), musa moderna, viva e aliena in grado di incrinare le pareti di quel “nido” di pavida cultura e fittizia armonia cui Samuel è inchiodato.
The Nest è un coming-of-age di estrema crudeltà, in cui l’esperienza ha i colori degli inferni di Blake e Milton (citato in apertura): De Feo si muove con estrema circospezione negli spazi da lui creati: predilige movimenti circolari prudenti, composizioni di astratta bellezza, visioni gotiche velate di memoria. Villa dei Laghi, a differenza di molte case orrorifiche, non ha una vita propria, un suo respiro: si tratta, piuttosto, di una tomba lussuosa, un luogo di fine e di morte; i suoi corridoi, gli ampi saloni, le vetrate, annunciano una immobilità eterna.
Certamente The Nest ha innegabili debolezze: una trama irrisolta, una frettolosa collocazione produttiva nel genere dell’horror “domestico” (che comprende titoli come A quiet place o It comes at Night) in cui una minaccia invisibile, dai tratti spirituali, riduce i sopravvissuti a uno stato di isolamento. E’ persino presente una sequenza onirica in puro stile The Visit, probabilmente appiccicata post-produzione e non amalgamata al resto del testo filmico, la cui funzione è quella di corroborare l’appartenenza del film al genere.
Ma ciò non inficia il fascino di questo film evanescente, fantasmatico, colmo di presenze spettrali valorizzate dalla bellissima colonna sonora di Teho Teardo, in cui archi dissonanti (sulla scia della sperimentazione di artisti come Mica Levi o Bobby Krlic) trasfigurano l’immagine sottendendo una minaccia trascendente, in un canto doloroso che è lo stesso dei protagonisti.
** 1/2
(Bleeder usciva in sala esattamente il 6 agosto 1999)
Si pensi alla casa di Louis: il “luogo” più stretto, angusto, soffocante del film. La mdp di Refn sembra non avere fiato, intrappolata nel misero appartamento, tra corridoi e stanzette decrepite. La luce non riesce a penetrare nell’ambiente: il nostro sguardo è incastrato tra una porta e una parete divisoria, e solo attraverso porzioni d’inquadratura riusciamo a seguire, tramite la mdp/personaggio, le tristi vicende familiari di Louis e Lea. I due vengono messi con le spalle al muro (dipinto di rosso): Lea si ostina a ritagliare una realtà fantastica di idillio familiare che persegue con la fede infantile di una creatura immatura e smarrita, priva di un rapporto con il reale.
Del tutto diverso è il registro scelto per la storia che si svolge in parallelo: quella del timido Lenny, commesso di videoteca e totale nerd cinematografico. Se la mdp di Refn si agitava nevrotica, quasi in fin di vita nelle scene con Louis, qui sembra invece mossa da meraviglia, persino ingenuità. Quando Refn insegue Lenny negli spazi della videoteca in cui egli lavora, le immagini sono vorticose, risultato di una steadycam emozionale che scivola su scaffali di film d’ogni genere: gli spazi sembrano infiniti. Come direbbe Fassbinder, “i film liberano la testa”; e difatti è proprio il cinema il rifugio interiore di Lenny, cui Refn affida alcune dei momenti più divertenti del film. I suoi scambi di battute con l’amico che gli rimprovera di parlare solo di film (“Ci sono altre cose nella vita! La natura, la spiaggia!”) ci riportano alla memoria i nerd di Clerks: con la differenza che rispetto al film di Kevin Smith, Bleeder non ammicca mai allo spettatore.