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A pochi mesi di distanza da Dogman, Sergio Stivaletti (regista e specialista degli effetti, tra i grandi Kings of B’s che hanno reso celebre il film di genere italiano) ci consegna con Rabbia Furiosa la sua versione della cruda vicenda del Canaro. Ma sarebbe ingiusto procedere con paragoni lesivi delle differenti estetiche e interpretazioni che presiedono alle due opere.
Rabbia Furiosa sintetizza, nell’immediatezza del titolo, l’approccio essenziale, l’aderenza ad una fabula che si snoda tra sentimenti archetipici ed impulsi primari. Stivaletti racconta una storia di amore, brutalità ed orrore che brucia come il cuore pulsante di una Roma estiva, soffocante, su cui grava il senso di una maledizione. Fabio e Claudio, uniti da un rapporto di quasi consanguineità, sono i Caino ed Abele rovesciati di un racconto dalla valenza primigenia: un legame che diviene violenza e sopraffazione, un antieroe calpestato fino alla profanazione degli affetti più sacri (la famiglia, l’amata cagnolina Bea), una “morte” simbolica dell’innocenza metaforizzata da una “ferita” che è l’inizio della malattia dello spirito.
Stivaletti segue gli eventi con diligenza cronologica (rischiando qualche dettaglio di troppo) e con grande rispetto dei suoi personaggi: il suo film non si basa sullo stretto confronto tra i due protagonisti, ma si allarga ad abbracciare – complice il cast perfetto – un microcosmo, un’umanità sbandata che brulica nel calore di una Roma infetta. Lo sguardo di Stivaletti è chiaro, limpido: la sua fotografia è lucida e definita da colori naturali, quasi grezzi. Sono i colori delle strade, dell’asfalto, degli appartamenti grigi, dei volti imbruttiti dalla stanchezza e dal sudore. Questo anonimato coloristico domina il film fino a quando il seme della violenza non si insinua nella mente di Fabio: ecco allora che ad una scenografia documentaria e realistica subentra il delirio, il sogno alterato. La città vira in toni più lividi man mano che in Fabio cresce la rabbia, avvolgendolo come un fiore velenoso: il suo dissidio interiore si trasforma in ossessione febbricitante e dolorosa.
Stivaletti riesce nel difficile compito di combinare l’insopprimibile urgenza di vendetta di Fabio con la sua aspirazione ad un mondo pacificato, fatto di sentimenti puri ed angelicati, emblematizzati dalla presenza metafisica dei cani. Ed è bellissimo che il regista abbia avuto il coraggio di inserire, in un film brutale e profondamente terreno, inserti onirici di grande spiritualità: la sua visione ha un’ingenuità vera e sincera, tale da rendere autenticamente commoventi i quadri metafisici azzurrati in cui i cani, come fantasmi, consolano la disperazione del Canaro.
Il cinema di Stivaletti è raro e di grande ispirazione proprio per questa verità palpabile: una fedeltà a se stesso in nome della quale il regista innesca, nella parte finale del film, una fantasmagoria di violenza estrema, aliena a compromessi e infinita nella sua necessità di mostrare il male.
Stivaletti ci spalanca gli occhi di fronte alla crudeltà: il sangue è totale, cruento, insostenibile; sgorga ed esplode sulle pareti, quasi danza sulle note delle sinfonie classiche care a Fabio. E’ una visione conturbante, che ci ricorda la frase di David Lynch per cui “vi è bellezza in una ferita”. Questa coreografia vermiglia, ballata macabra di torture e musica, culmina nell’apparizione suggestiva di un Fabio trasfigurato, lavato dal sangue che lo ricopre in tutto il corpo. Qual è la differenza tra il demone e l’angelo? Stivaletti ci instilla il dubbio, consegnando un Fabio purificato e ormai lontano dal dolore del mondo all’amore dei suoi cani.

Ispirato dagli artisti che più ammirava – Frank Tashlin e Chuck Jones – Dante andò a “smontare” letteralmente la dolcezza spielberghiana dell’opera precedente. Spielberg storse il naso di fronte a questo progetto decostruzionista/dadaista, ma non lo intralciò; più allarmati invece gli Studios, che tentarono inutilmente di dissuadere Dante dal “rompere il quarto muro” per giocare con il pubblico. Il regista però non scese a compromessi, rivendicando il valore “brechtiano” del suo gesto artistico: “I produttori, in genere, non vogliono assolutamente che al pubblico sia fatto notare che stanno assistendo ad un film. Mi dicevano: Ma la gente uscirà dalla sala! E io li rassicuravo: Non lo faranno! E’ solo uno scherzo!”
Gremlins 2 è disseminato di scarti, vuoti, fratture, riferimenti: il film inizia con una sequenza animata diretta proprio da Chuck Jones, con Bugs Bunny e Daffy Duck che fanno a pezzi il classico intro Looney Tunes rubandosi a vicenda il logo della Warner Bros: un inizio che stabilisce subito il gusto anarchico che presiede l’opera. Tra i personaggi del film, memorabile il “mad doctor” Christopher Lee, inquadrato più volte in primo piano e soffuso da una luce verde, allusiva della satura e irreale fotografia Hammer Films. Dante passa in rassegna, con spirito iconoclasta, svariati cult tra cui Rambo (Gizmo lo adora e ne copia lo stile indossando una fascia rossa sul capo) e Il Fantasma dell’Opera (“interpretato” da un gremlin sfigurato dall’acido). Lo stile violento e ipercinetico del film si concede persino una degenerata incursione nel musical, con un numero alla Busby Berkeley.
Dante non si ferma di fronte a nulla, rompe le regole, contamina, satirizza; arriva a coinvolgere persino il più celebre critico del periodo, Leonard Maltin, inquadrandolo mentre, dvd alla mano, stronca il primo film (come accadde nella realtà): stroncatura interrotta dalla furia vendicativa dei gremlins, che si avventano su di lui. Siamo di fronte ad una vera e propria rivincita pirandelliana dei personaggi: un capitolo di pura avanguardia, che prevedibilmente il pubblico non comprese, affossando il film al botteghino.
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