SONG TO SONG di Terrence Malick

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Rivedendo proprio ieri Badlands (1973), l’esordio di Terrence Malick, individuavo la coerenza dello stile del regista, accusato di aver tradito, con le opere recenti, la sua ispirazione più autentica.
Nessun tradimento in realtà, poiché l’analisi ci rivela una serie di costanti tra la sua carriera passata e presente: dalle medesime composizioni dell’inquadratura, all’inafferrabilità dei personaggi (che nonostante la voce off rimangono spesso opachi, impenetrabili), fino alla tendenza a dialoghi rarefatti e apparentemente insignificanti; inoltre, ricorre la spiritualizzazione della figura femminile, la trasformazione dei suoi gesti in grazia e danza, contrapposte ai personaggi maschili più “pesanti” e legati alla loro natura terrena.

Quello che forse non piace, ai detrattori di Malick, è la radicalizzazione del suo stile: la rarefazione che si fa sempre più aerea, ai limiti dell’inconsistenza; lo studio estremo dell’immagine, che ora può servirsi di tecniche differenti per una composizione sempre più tendente all’esplorazione libera dello spazio e degli esseri umani che lo abitano; le voci off che da semplice narrazione diventano flussi di coscienza disordinati, sospiri, interrogativi, sofferenza trasformata in parola; infine la ricerca della bellezza femminile che si esprime mediante movimenti con funzione simbolica – la mimica, il ballo, il muoversi nervoso delle mani.

Malick ha intravisto un percorso nella propria arte e lo ha perseguito senza esitazione, senza compromessi e condizionamenti; e Song to Song è l’ultimo capitolo di questa ricerca, uno studio sull’amore affrontato con tutti gli strumenti a disposizione del regista – la poesia, il digitale, la libertà delle GoPro, la filosofia che diviene sguardo, angolazione, ritmo, e soprattutto luce.
A differenza di Knight of Cups, Song to Song è un lavoro che cerca un’immediatezza, una ripresa del presente nel suo farsi. Knight of Cups si caratterizzava per un distacco dato dalla memoria e dall’analisi attraverso il tempo; in Song to Song invece i personaggi non hanno il tempo di elaborare il proprio pensiero, ma ce lo esprimono parallelamente al suo formarsi nella coscienza. Lo stream of consciousness è presente, doloroso, contraddittorio; la parola è inscindibile dal sentimento che porta con sé.

Malick cerca di dare forma visiva a questo sentimento con un linguaggio di grande irrequietezza, spezzato, mobile e infinito come la poesia; la sua macchina da presa si sofferma su volti, occhi, mani; il cuore vuole “fermare” l’altro, possederlo, e così fa la macchina da presa, che avvolge i corpi in una stretta amorosa. Ma non solo: il sentimento cerca il proprio specchio anche nei paesaggi, nelle acque, nei tramonti, e nelle bellissime scene notturne della città. Il sentimento è lirico, incolpevole e arcano come la musica: di qui il titolo Song to Song. I brani musicali sono momenti eterni in cui fermare uno stato d’animo; le vicende dei quattro protagonisti si rincorrono, si afferrano, azzerano il tempo attraverso la musica.
Song to Song è l’illusione dolorosa dell’amore, mai interamente posseduto; guardare il film di Malick è come leggere una poesia del surrealista Robert Desnos: “Oh dolori dell’amore! Come mi siete necessari e come mi siete cari. I miei occhi si chiudono su lacrime immaginarie, le mie mani si tendono senza tregua verso il vuoto.”

KNIGHT OF CUPS di Terrence Malick

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Per molti, il cinema recente di Malick è un tradimento: un percorso autoriale differente da ciò che avevano immaginato, una delusione da rifiutare. Eppure amare il cinema significa anche essere in grado di accogliere l’immagine, lasciarla respirare nel nostro sguardo; soprattutto un’immagine qual è quella malickiana, di infinita bellezza e capace di scardinare i limiti della nostra percezione. Un’immagine protesa alla ricerca ed alla meraviglia, incapace di trovare riposo: tutto è movimento, tutto è in continua trasformazione. Si può guardare il mare ed essere improvvisamente distratti da un volo di gabbiano, o si può seguire un protagonista e poi lasciare che il nostro occhio cada su un animale ferito che attraversa la strada. Il cinema di Malick imita l’umano pensiero ondivago che, irrequieto, cerca di cogliere il senso delle cose; un pensiero che vorrebbe volare per afferrare lo spirito divino immanente alla natura.

Malick da tempo segue un istinto poetico (che lo accomuna all’Herzog de L’Ignoto Spazio Profondo) tradotto in un cinema personale, religioso e audace nell’abolire il peso della storia. Il suo cinema è avulso dal Tempo ed ogni scena diventa storia a sé, in grado di riscriversi in innumerevoli modi differenti nel ricordo del personaggio che la vive o nella mente dello spettatore che se ne appropria. In Knight of Cups non sappiamo mai cosa succede davvero, o chi sono gli enigmatici personaggi che lo abitano; eppure Malick ce li fa amare, ce li presenta intimamente, nudi e lacerati, rivelati in una bellezza di cui nemmeno sono consapevoli. In questo senso il cinema di Malick è davvero vicino all’amore, con il quale crediamo di conoscere l’“altro” in realtà inconoscibile e mutevole, eppure così apparentemente vicino a noi, parte di noi. Tutto il cinema di Malick è una forma di amore per le cose, per lo spazio che abitiamo, la natura, le strade: elementi tanto familiari quanto inconoscibili. Una vita che sfugge tra le dita, ma in grado di aprire squarci di infinita, fuggevole bellezza.

Knight of Cups è cinema girovago, è il cinema del viandante che si interroga sotto una luna fredda e distante, cristallina quanto le luci di un club in cui corpi nudi di ragazze brillano sotto il neon. Il protagonista Rick (Christian Bale) consuma rapporti con una fede improvvisa, ogni volta un luccichio di breve durata: le donne diventano “la donna”, la musa desiderata attraverso la quale decifrare la foresta dei simboli del mondo. La donna dai molti volti, una chiave momentanea per aprire lo scrigno di un “senso” che immediatamente svanisce, seppur lasciando la scia di un ricordo enigmatico e colmo di mistero.

La macchina da presa di Malick è il suo occhio abbandonato ai moti dell’animo: scivola, insegue, si distrae, indugia. E’ uno sguardo che non distingue tra oggetto e soggetto: Rick guarda il mare “grande specchio della mia disperazione”, secondo la lirica di Baudelaire; Rick è nell’aria, nel cielo, nella sua donna. Si può anche non condividere la religiosità dello sguardo del regista, ma non si può non restare ammirati dal suo desiderio di trasformare la propria spiritualità in immagine: e Malick ricorre ad ogni mezzo – dalla ripresa digitale più raffinata, alla videocamera di un cellulare, alla soggettiva della GoPro. E ciò fa di lui un regista più giovane di chiunque, che non tralascia nessuna delle nuove possibilità offerte dal cinema per infrangere le barriere dello sguardo e del pensiero. Perchè scrivere una storia quando il suo cinema ne può contenere mille?