LA GRANDE SCOMMESSA di Adam McKay

bishort1Presente nelle top ten 2015 della maggioranza dei critici americani, La Grande Scommessa è una satira ipertrofica per giustapposizione di stili, logorrea verbale, contaminazione fiction/documentario e moltiplicazione dei livelli narrativi; il tutto frantumato in una miriade di immagini ricomposte in un flusso dinamico che porta le tecniche televisive al parossisimo.

Da un lato, si ammira McKay e il suo team per il tecnicismo infinitesimale e curatissimo del film: un tecnicismo che appartiene alla sceneggiatura, agli incessanti dialoghi, alla professionalità esperta del montaggio serrato. Si può scomporre il film inquadratura per inquadratura ed effettivamente constatare che il progetto, secondo la visione di McKay, è perfetto e strutturalmente solido; ma quanto resta di cinema in La Grande Scommessa?
Siamo lontani anni luce dal maelstrom immaginifico di Scorsese, che aveva trasformato le leggi di Wall Street in un inferno primordiale, in cui impulsi, avidità primitiva, genio umano e isteria moderna turbinavano in una visione cinematografica folle e magmatica. La Grande Scommessa sembra inseguire la pluralità di linguaggi scorsesiana ma McKay, un passato da regista di Anchorman e Talladega Nights, è più vicino alla subliminalità televisiva delle Fox News. E’ indubbio che il suo film sia coinvolgente nel riallestire il famoso “doomsday” del 2008, che cresce come un’apocalisse montante in un’atmosfera di frenesia e incoscienza.

C’è un clima giocoso, in La Grande Scommessa, che vorrebbe temperare la tragicità di un collasso pagato con i sogni e con la vita di milioni di ignari cittadini comuni. Ma McKay cerca di orchestrare la sua satira confondendo storia e racconto, e squarciando troppo spesso la finzione con intromissioni (triviali) di celebrità che ammiccano al pubblico, o con l’intervento di personaggi (Gosling) che espongono direttamente allo spettatore la morale del film. Per oltre due ore e dieci McKay violenta il nostro sguardo, indeciso tra presa diretta degli eventi, camera a mano, e un’anarchia di stimoli visivi che orchestra, con gusto postmoderno, simboli ed oggetti della cultura di massa.
Un film significativo ed emblematico, ma anche un oggetto cinematograficamente spurio, ambiguo ed estremamente compiacente. Un giano bifronte tra denuncia ed esaltazione d’America. Altman e Pollack sono lontanissimi, scomparsi, dimenticati.

FOXCATCHER di BENNETT MILLER

Foxcatcher_68966Con Foxcatcher, Bennett Miller lavora all’interno del cinema americano allo stesso modo in cui i Dardenne lavorano all’interno del cinema europeo: la sua ricerca di naturalismo si fonda su un attento lavoro strutturale e su una profonda ricerca nei confronti del linguaggio. E se i Dardenne preferiscono piani sequenza e camera a mano, Miller sceglie l’alternanza di campi lunghi e primissimi piani; inserisce così il volto all’interno dell’ambiente. Dapprima Mark si muove nel suo appartamento modesto, e nella palestra proletaria e spoglia, sulla cui parete campeggia il logo: quasi un quadro pop-art. Poi si sposta nella villa di Du Pont: ecco che la sua mascolinità muscolosa, massiccia, giovanile ed energica irrompe nel candore delle stanze del ricco erede. Con la semplicità rozza del suo corpo allenato, Mark resta un elemento estraneo all’interno degli spazi posseduti da Du Pont. Di quegli spazi è un oggetto, un nuovo trofeo, l’emblema su cui Du Pont trasferisce passioni distorte: il nazionalismo, il potere, la perfezione del corpo, l’ossessione virile, la vittoria. Nei panni di Du Pont, Carell si smaterializza per lasciar emergere un uomo disturbato, privo di empatia, mosso da pulsioni elementari ingabbiate in un freddo razionalismo. I momenti più emozionanti del film sono quelli in cui i sentimenti di Mark, desideroso di soddisfare la figura del Padre-acquirente, sfociano in rabbia e frustrazione di fronte all’impassibilità ebete di Du Pont, essiccato di ogni umanità e proteso al raggiungimento dell’obbiettivo. Con il pretesto di raccontare un fatto di cronaca, Miller esplora l’America più nuda, i rapporti masochisti che attraversano le classi sociali, la disperazione ed il vuoto ideale; il wrestling è il paradigma carnale in cui si contorce lo spirito dell’uomo, sullo sfondo di ambienti ordinati e disciplinati sui cui pesa, divorante, l’ombra della tragedia.