DON’T WORRY di Gus Van Sant

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Con Don’t Worry, Gus Van Sant porta sullo schermo l’omonimo romanzo autobiografico del celebre fumettista John Callahan: alcolizzato e vittima di un incidente che lo rende paraplegico, Callahan rinasce grazie all’amore (per una donna, per l’arte) e trasforma la propria tragica esistenza in rivincita. Da un soggetto del genere poteva nascere un’opera estremamente vitale, pulsante di emozione tanto quanto il suo irriducibile protagonista; eppure si esce dalla visione di Don’t Worry stremati, estenuati da due ore in cui i nostri occhi seguono, attraverso un racconto spezzato e irregolare, la figura di John senza mai penetrarvi fino in fondo i pensieri. Perchè il problema principale di Don’t Worry è il suo essere narrazione – singolare, virtuosistica, innecessariamente ingentilita e arricchita di preziosità care al cinema indie – di un oggetto opaco.

Si ha la sensazione che nella sua cronologia frantumata, nei flashback emotivi, nelle dissolvenze a tendina e nei dialoghi apparentemente rivelatori e pop-filosofici, Don’t Worry celi un’anima fragilissima da prodotto Sundance anni ’90 (non per nulla appare in un cameo Heather Matarazzo): fuori tempo massimo, dunque, per l’idea di cinema “giovane” che veicola, e ancorato ad un’estetica che traduce la sua political correctness in un balletto di immagini in cui le asperità sono limate, il dolore reso mite e cortese quel tanto che basta per commuovere lo spettatore senza recargli eccessivo disturbo, e i contrasti si risolvono in una compostezza finale armonica e dolcemente pacificatoria.

Eppure Gus Van Sant possiede una ingenuità sincera che traspare nella cura “affettiva” che ripone nel comporre il puzzle esistenziale di Callahan. Il regista ama profondamente i suoi personaggi d’un amore irrisolto, che non trova il linguaggio giusto per esprimersi. Nella sua immensa bravura, Joaquin Phoenix riesce a guidarci attraverso un protagonista che la regia esteriorizza in una superficie impenetrabile di frasi, gesti, pose convenzionali, smembrati in capitoli dalla formalizzazione quasi televisiva; Phoenix ha un talento in grado di mettere a nudo il cuore di John, là dove la mdp di Van Sant sembra continuamente eluderlo.
Altrettanto bravo è Jonah Hill, nei panni di un coach motivazionale che sborda nel cristologico da supermarket: le massime di Lao Tzu, l’anticonformismo, l’abbigliamento alla Paul Simon di Annie Hall rappresentano la codificazione di un repertorio new age di cui Hill è la diretta rappresentazione al limite del grottesco. E’ un miracolo che Hill, da tanta banalizzazione, riesca a trarre una figura cui riusciamo ad aderire emozionalmente: come Phoenix, Hill va oltre il dato offerto dal testo filmico e scava, miracolosamente, una profondità.

Sprecato il resto del cast: Beth Ditto, Kim Gordon, Udo Kier sono il “Breakfast Club” versione Alcolisti Anonimi; mentre Rooney Mara è una rosa in boccio posata nel film semplicemente per la sua incantevole trasparenza: del suo amore con Callahan non sappiamo nulla, ma li vediamo improvvisamente volteggiare su una sedia a rotelle e nei loro sorrisi lasciamo annegare la nostra incredulità.

CAROL di Todd Haynes

carolCarol non è, forse, il miglior film di Haynes, ma un’opera importante in cui la storia d’amore diviene lo strumento per mettere a confronto due mondi e due linguaggi.
In questo racconto che tende alla spiritualizzazione (c’è sempre una forte spinta alla trascendenza nel lavoro di Haynes), Carol e Therese assumono un valore che va oltre la loro corporeità e dimensione umana: sin dalle prime scene il regista fa del rapporto tra le due donne il punto critico di una trasformazione, di un passaggio che è anche stilistico.
Therese è il simbolo di quella tendenza al realismo che nasce nell’arte americana dei ’50: e difatti Haynes la rende protagonista di scene vive, mobili, illuminate da luci naturali e da una regia moderna; camera a mano, ambienti socialmente più “bassi” ma appassionati, propulsivi al cambiamento. Quando Therese è in scena sembra di assistere ad un film della nouvelle vague, poetico e alla ricerca di verità. All’opposto, Carol è il passato e Haynes lo rappresenta in forme regali quanto immobili: è un passato-emblema di una società al tramonto, ma anche l’addio ad un’arte – un cinema – divistico, innaturale, imbrigliato (quanto esaltato) dalle leggi dello studio system.

Carol è, sotto molti aspetti, un fantasma. La sua presenza ricorda quella delle grandi attrici del muto: è vittima della sua stessa perfezione, bloccata nell’espressione enfatica e teatrale delle proprie emozioni. Le scene che vedono Carol come protagonista sono una riproduzione – quasi sognata, remota ed immobile – del grande cinema hollywodiano, fatto di technicolor e di finzioni evidenti (alcuni trucchi vengono rivelati al pubblico in tutto il loro fascino obsoleto, come una scena in automobile).
L’incontro tra Carol e Therese diviene non solo una passione proibita, ma anche l’attrazione tormentata tra due epoche che si susseguono. Haynes orchestra con grande amore questo doloroso rendez-vous: il regista è da sempre un profondo ammiratore e conoscitore della Hollywood classica (si pensi al Sirkiano e bellissimo Far from Heaven, ma anche al filologico e affascinante Mildred Pierce), eppure il vero cuore del film è la sua Therese, la giovinezza impulsiva e innocente, il cambiamento, la rivoluzione.

Rooney Mara è l’attrice perfetta per la parte: bella come Audrey Hepburn, incarna una nuova figura femminile, più naturale e consapevole di sé; mentre, parallelamente, il cinema intorno a lei si muove, cambia forma e colore.
La vera malinconia del film è questo agitarsi di due epoche: i momenti più emozionanti sono quelli in cui la contaminazione si riflette sul corpo delle due protagoniste – una Therese truccata, abbellita, mentre al contempo Carol si mostra provata, senza rossetto, senza algido autocontrollo.
Haynes perde emozioni là dove si concentra troppo sulla forma, ma indubbiamente Carol è tra le opere più significative della sua carriera: un saggio teorico ed estetico di un artista che vive e riflette le mutazioni dell’arte e del tempo.