EO di Jerzy Skolimowski

In uno dei suoi film più belli, Miyazaki Hayao fa dire alla sua protagonista: “Il vantaggio della vecchiaia è che non si ha più nulla da perdere”. Ed è in questa condizione dello spirito, forse, che l’ottantaquattrenne Jerzy Skolimowski ha realizzato EO, film che rigetta con felice “incoscienza” i codici convenzionali del cinema e il generale appiattimento strutturale contemporaneo, con le sue banali modalità narrativo/espositive. A Skolimowski non interessa introdurre lo spettatore in un percorso riconoscibile, né mettere in scena la classica fabula in tre atti dallo svolgimento lineare: il suo EO vive di emozioni, trasalimenti tradotti in luce e forma; è cinema soggettivo, il cui sguardo appartiene alla dolcezza e purezza di una creatura non umana, smarrita nell’osservazione angosciosa di ciò che la circonda. Un’angoscia presente sin dalle prime inquadrature, pur ricolme d’amore, che però ci mostrano l’asinello EO già schiavo di un possesso umano, di un’esistenza innaturale fatta di esibizione, spettacolo, tra luci violente e lontane dalla densità atmosferica naturale. Nell’occhio dell’animale, che Skolimowski inquadra spesso con lente grandangolare, riuscendo miracolosamente a coglierne lo stato attonito, in parte spaventato ma anche arreso al fluire delle cose, vediamo il riflesso del mondo. Luci rosse, intermittenti, quasi ci perforano nella loro invasività: si tratta dei colori dello spettacolo, dell’artificio degli umani, che sottraggono EO a un destino di libertà per farne strumento, sia economico che di trastullo, a beneficio dei propri interessi.

Il suo status di attrazione da circo è solo l’inizio di un’odissea dolorosa e colma di bellezza, che vede l’innocente EO attraversare l’inferno della vita terrena quale corpo estraneo e angelicato. Il film registra, tra visioni allucinate e desideri struggenti, il martirio dell’asinello, stipato in vetture adibite al trasporto di animali, dalla cui stretta apertura osserva una felicità e un paesaggio che gli sono negati. L’animale diventa testimone della violenza più cupa e irriducibile – quella della morte per mano di cacciatori, o di operatori adibiti all’uccisione di volpi da pelliccia, fino alla perversione ottusa di un gruppo di tifosi che sfoga sul suo corpo la rabbia per una partita di calcio perduta.
In una meravigliosa e articolata passeggiata notturna, EO cerca rifugio in una natura mormorante e animista, spiritualizzata come quella de La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton: ruscelli misteriosi dove si specchia la luna, animali in comunione con la notte, tele di ragno umide di rugiada e brillanti come diamanti. Solo e smarrito, l’asinello scoprirà il silenzio e il sangue, mentre la bellissima colonna sonora del compositore Paweł Mykietyn diventa la voce del suo dolore, un flusso di coscienza musicale ed emozionale.

Trascinato, catturato, rapito, costretto ad assistere alla morte dei propri simili, EO viene collocato dall’utilitarismo umano in spazi geometrici – lunghi corridoi, oppure stalle rigidamente divise in settori rettangolari; camion orizzontali dove gli animali vengono ammassati, percorsi circolari (che Skolimowski inquadra dall’altro, per mettere in evidenza il contrasto tra la fredda matematica e i corpi reali, disordinati delle bestie destinate al macello). Questo destino di cattività, immortalato dal regista in quadri brevi, frammenti di quotidianità disseccata e funebre, si alterna a fughe impossibili colme di vita e bellezza. EO incede lungo strade vuote, “parla” con i pesci intrappolati in un acquario, cammina dolcemente su un ponte, incorniciato da un turbine d’acqua, di suoni, di abissi densi e incomprensibili. Ogni volta che EO sfugge al dominio umano, la geometria si spezza e la vita acquisisce nuovamente un tempo sospeso – il tempo dell’aria, delle stelle, della bruma che avvolge il mattino. Troppo puro per questa realtà, EO sembra espulso da un paradiso animale al quale la sua anima innocente cerca di far ritorno: camminare sulla terra, tra scherni, frustate e percosse, è la sua parabola di santità, cui partecipiamo tra le lacrime – le stesse lacrime versate da Skolimowski quando, ragazzo, assistette alla proiezione di Au hasard Balthazar (1966) di Bresson.

FIRST REFORMED di Paul Schrader

[Appunti brevi]

Mentre Paul Schrader a Venezia riceve il Leone d’oro alla carriera, torno brevemente sul suo First Reformed (2017), un film che lascia un’impressione indelebile, tra i più importanti degli ultimi anni; cinema libero e irriducibile, capace di calarsi con determinazione nel cuore di tenebra dell’esistenza umana quanto di percepirne la luce, sfiorandola in immagini di struggente geometria.
Schrader conosce il tormento, la vertigine di un pensiero straziato da tensioni opposte. La grazia, la colpa, l’aspirazione a una impossibile redenzione sono scritti sul corpo di Toller/Hawke, osservato da vicino o nel dettaglio di mani che si tormentano, scrivono, toccano. La coscienza cerca riparo nell’esercizio della parola scritta (il diario di ascendenza bressoniana), ma il turbamento dell’anima straripa e travolge ogni forma di luce razionale. Lo spazio è rigoroso, alieno; i corpi vi si muovono in uno stato di perpetua estraneità e le inquadrature ci parlano di una sfasatura senza fine. La presenza divina è astratta e impenetrabile, resa ancor più remota dalle simmetrie architettoniche della chiesa. Toller, come il personaggio di Nicolas Cage in Bringing Out The Dead (1999) non riesce più a reggere il dolore del mondo. Solo l’amore offre un volo momentaneo, staccando Toller da terra in una sequenza di tale audacia visiva da ricordarmi il Fuller più delirante. Come Cage, anche Hawke trova una Mary cui stringersi (e la centralità salvifica della figura femminile tornerà anche in The Card Counter, 2021).
Tanta fragile umanità scuote lo schermo, lasciando una tempesta nello spettatore. “Will God forgive us?”