Il film di Tornatore è uno di quei fallimenti interessanti e fecondi; talmente sbagliato sotto molti aspetti, eppure capace di lasciare una memoria di sé evocativa ed affascinante. Un film che, soprattutto, ha il pregio di non essere mai né compromissorio, né compiacente, come invece accade a tanto cinema italiano. Tornatore ha un gran coraggio: La Corrispondenza è lo specchio delle proprie ossessioni, idee (di cinema e di vita), che il regista cerca di esprimere e comunicare al pubblico senza adulazioni, e con i tempi (irrimediabilmente dilatati) che egli ritiene appropriati. In questo è un artista rigoroso, puro: resta fedele alla sua autorialità senza temere il ridicolo. Un atteggiamento che ne fa tra i più romantici – in senso classico – dei nostri registi.
Ne La corrispondenza Tornatore agita passato e presente, prediligendo una concezione antica dell’amore – nella sua accezione quasi stilnovista, con una donna/figura angelicata che diviene la Musa del suo protagonista; al punto che egli le dedica tutto il proprio essere, oltre le barriere del tempo e dello spazio. Questa visione amorosa si nutre, come nell’amor cortese medievale, di ostacoli: si pensi alla passione di Abelardo ed Eloisa, o di Tristano ed Isotta. Nel film, l’ostacolo è la distanza, di cui l’idea della morte non rappresenta che il suo aspetto più estremo. Il problema è che Tornatore esprime questa concezione amorosa per mezzo di dialoghi scadenti e pseudopoetici, la cui puerilità trionfa nell’astrofisica usata come sfondo stellato di trepidazioni adolescenziali; e traspone il tutto nella banalità della nostra era tecnologica.
Il sentimento diviene prigionia, nel moltiplicarsi di mail, emoticon, suonerie skype, avvisi telefonici. La povera Olga Kurylenko, bellissima e capace di dipingere sul suo volto vulnerabilità e sofferenza, è l’emblema delle vite interrotte della contemporaneità: vederla tirar fuori l’Iphone nel mezzo di una cena, o di una conversazione interessante, o a teatro, persino sul lavoro, ci ricorda quanto sia diventato maleducato il sentimento. E’ impossibile aderire alla magia di un amore che scavalca il tempo, le stelle, le galassie quando tutto ciò che vediamo è l’ennesimo schermo-nello-schermo, o display di cellulare, o webcam. Siamo lontanissimi dal sublime di A matter of life and death (1946) di Powell & Pressburger.
Va dato atto a Tornatore di aver saputo individuare, come pochi, il dramma dei nostri onanismi contemporanei, delle nostre chiusure, delle meccaniche ripetizioni di una vita imprigionata dalla tecnologia. E persino un film come questo, bloccato in un eterno ritorno al punto di partenza, contiene singole scene di luminosa bellezza: penso ad Amy chiusa nel calco di gesso, o al viaggio verso la sua “isola dei morti” guidata da uno strano nocchiero visionario, o ai primi piani dei suoi occhi grigi. Tutte immagini che ci fanno dimenticare, per fortuna, la foglia vagante, i cieli mistici, il cane reincarnato, l’aquila in cgi che mima un volo spirituale, e soprattutto, i dialoghi tra “la kamikaze e lo stregone”.