LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI di David Trueba

vitafacileNonostante si tratti di film diversissimi, La vita è facile ad occhi chiusi e Le streghe son tornate, trionfatori indiscussi ai Premi Goya 2014, sono accomunati da un sottile fil rouge che si insinua nelle trame. Entrambi i film sono declinazioni del road movie: i personaggi si ritrovano all’interno dell’abitacolo di un’automobile, e da lì cominciano a rivelarsi. Il viaggio li trasporta verso un evento eccezionale, ovvero l’incontro con una o più figure “sovrannaturali”, incarnazioni dell’immaginario: John Lennon per il timidamente sovversivo professore del film di Trueba, e le streghe nel caso degli sgangherati criminali di Alex de la Iglesia. Ma se il film di de la Iglesia è dinamite cinematica, ironia corrosiva e sguardo sociale affilato e sanguinario, che usa il fantastico per affondare nelle debolezze umane, Trueba fa un movimento opposto: trasporta il realismo e le sue creature umane nel regno (languidamente inerte) del sogno, conferendo loro un’aura di dolcezza angelicata.
I primi minuti di La vita è facile ad occhi chiusi rendono con chiarezza lo stato d’animo della Spagna franchista sintetizzandolo in tre schiaffi, cui assistono, in situazioni diverse, i protagonisti. Tre schiaffi in ambito professionale, sociale, privato; violenze che fanno esplodere il desiderio di sogno e di evasione, e accendono una scintilla di fuga, di cambiamento.
Per molti aspetti l’opera di Trueba è ancor più “irreale” – oltre che molto più debole – del trionfo meraviglioso di de la Iglesia: proprio perchè il viaggio diventa un percorso anestetico/ideale, in cui i sogni si realizzano, le difficoltà vengono superate e si verifica un “ritorno” ad uno stato idilliaco, privo di traumi. Un registro fiabesco che circoscrive il film in un ambito di pura nostalgia, cullando dolcemente sia gli spettatori che i suoi protagonisti e privandoli di un “divenire” drammatico.

Il fluire incessante delle riflessioni del professore, che raccoglie sulla strada la ragazza ventunenne incinta ed il sedicenne educatamente ribelle, avvolge in una nuvola protettiva e separata dal mondo le incertezze dei due giovani. Almeria, antica e selvaggia, è un rifugio in cui “chiudere gli occhi”, brevemente, e dimenticare lo stato repressivo della dittatura. Il vento, il mare, la forza del discorso e gli improvvisi spiragli aperti nel cuore diventano modulazioni dello spirito.
Il regista osserva silenzioso, rifiuta invadenti movimenti di macchina, si sofferma su volti e corpi o scopre sguardi improvvisi sul paesaggio. Talvolta, tra parole e natura, sembra quasi di trovarsi in un ricordo rohmeriano. Un film, di certo, eccessivamente sognato, colmo di ottimistica fiducia nell’ingenuità dei suoi protagonisti; ma capace, in momenti di rara grazia, di fermare l’emozione di una carezza tra cielo e mare, o di fotografare un corpo nel sole, nell’attimo della sua nuda, assoluta verità.