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I film americani migliori, ultimamente, sono quelli in cui vi è la valorizzazione di luoghi e spazi: luogo “antropologico”, nel suo valore di tradizione, formazione, in ultimo identità. Dopo la Georgia di Tonya, il finto Missouri (in realtà monti Appalachi) di Tre Manifesti a Ebbing, La Truffa dei Logan parte dal territorio per definire una condizione dello spirito: tra il North Carolina e il West Virgina c’è l’America rurale dei rednecks, dei luna park (State Fairs), delle corse Nascar; un’America lontanissima dalle metropoli, immersa nei boschi, in cui la distanza tra due città è coperta da ore di guida attraverso impersonali interstate lungo paesaggi senza fine. Qui Soderbergh dà vita al suo personale vaudeville, con un film che pur servendosi di un genere già esplorato in tutte le sue varianti – un crime movie corale, intriso di commedia – trova le sue origini nel cinema della Hollywood classica, per il suo decoupage di intatta perfezione, la sua scrittura musicale e matematica, e una regia funambolica che non contiene una singola inquadratura di troppo.
Soderbergh maneggia la sceneggiatura di Rebecca Blunt come se fosse scritta da Ben Hecht, e valorizza la complessità di una trama che scivola via dipanandosi in scene essenziali: in tal senso, La Truffa dei Logan può essere considerata un vero manuale di regia. La bravura di Soderbergh sta nell’iniettare un’idea classica di cinema con una sperimentazione che trasforma ogni suo film, anche quelli meno riusciti, in un affascinante incontro di passato e futuro.
L’America de La Truffa dei Logan, con i suoi personaggi che vivono ai margini del sogno, derelitti, afasici, destinati ad essere per sempre “mancanti” di qualcosa (il Clyde di Adam Driver è un veterano che ha perso una mano nella guerra in Iraq), sebbene virata nel grottesco, è un’America che ha origini nella letteratura di Steinbeck, attraversa il cinema da John Ford (La via del Tabacco, 1941) al comico dei Fratelli Farrelly fino ad approdare alla revisione di Soderbegh. Il regista fa dei suoi personaggi antieroi emblematici, i vinti di un’illusione americana impossibile da raggiungere, metaforizzata attraverso i concorsi di bellezza e soprattutto le sfavillanti corse Nascar: un sogno di velocità e colore postmoderno, cui è sottesa una stritolante macchina economica nutrita di cheeseburger, bevande spazzatura e sentimenti patriottici.
Si tratta di perdenti cui Soderbergh guarda con amore, che indossino divise da carcerati come in I Am a Fugitive from a Chain Gang (1932) o si ammantino di romanticismo come in un film sentimentale anni ’40 (molto bella la sequenza tra Channing Tatum e Katherine Waterston, trionfo di allusioni e non-detto). La Truffa dei Logan è quasi un musical, in cui i personaggi “danzano” in coreografie che trasfigurano il pessimismo del reale in un volteggiare leggero: cinema-spettacolo che affonda le sue radici in una consapevole amarezza.