FOXCATCHER di BENNETT MILLER

Foxcatcher_68966Con Foxcatcher, Bennett Miller lavora all’interno del cinema americano allo stesso modo in cui i Dardenne lavorano all’interno del cinema europeo: la sua ricerca di naturalismo si fonda su un attento lavoro strutturale e su una profonda ricerca nei confronti del linguaggio. E se i Dardenne preferiscono piani sequenza e camera a mano, Miller sceglie l’alternanza di campi lunghi e primissimi piani; inserisce così il volto all’interno dell’ambiente. Dapprima Mark si muove nel suo appartamento modesto, e nella palestra proletaria e spoglia, sulla cui parete campeggia il logo: quasi un quadro pop-art. Poi si sposta nella villa di Du Pont: ecco che la sua mascolinità muscolosa, massiccia, giovanile ed energica irrompe nel candore delle stanze del ricco erede. Con la semplicità rozza del suo corpo allenato, Mark resta un elemento estraneo all’interno degli spazi posseduti da Du Pont. Di quegli spazi è un oggetto, un nuovo trofeo, l’emblema su cui Du Pont trasferisce passioni distorte: il nazionalismo, il potere, la perfezione del corpo, l’ossessione virile, la vittoria. Nei panni di Du Pont, Carell si smaterializza per lasciar emergere un uomo disturbato, privo di empatia, mosso da pulsioni elementari ingabbiate in un freddo razionalismo. I momenti più emozionanti del film sono quelli in cui i sentimenti di Mark, desideroso di soddisfare la figura del Padre-acquirente, sfociano in rabbia e frustrazione di fronte all’impassibilità ebete di Du Pont, essiccato di ogni umanità e proteso al raggiungimento dell’obbiettivo. Con il pretesto di raccontare un fatto di cronaca, Miller esplora l’America più nuda, i rapporti masochisti che attraversano le classi sociali, la disperazione ed il vuoto ideale; il wrestling è il paradigma carnale in cui si contorce lo spirito dell’uomo, sullo sfondo di ambienti ordinati e disciplinati sui cui pesa, divorante, l’ombra della tragedia.