ARRIVAL di Denis Villeneuve

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Arrival
è un film senza tempo: è allo stesso tempo classico e contemporaneo, intriso di memoria che traluce in ogni immagine. E proprio la luce è uno dei dati “forti” del film: Arrival vive di essa, inghiotte la nostra angoscia nel suo bianco, spiritualizza il nostro essere nel mondo. C’è una sorta di fede ancestrale nel tunnel nero che conduce ad un bianco puro, luminoso, sconosciuto, che sa di rinascita e di dimensione “altra”; luce cui tende il destino collettivo. Villeneuve attinge alla trascendenza di 2001 Odissea nello spazio, ai suoi silenzi in cui cova la scoperta e la paura: è cinema che si avvicina ad un oltre, punto d’incontro tra la vita e la morte. L’esperienza di Louise (Amy Adams) somiglia anche a quella di William Hurt in Altered States, al suo avvicinarsi ad un nucleo inconscio che lega il suo destino e la sua storia individuale a quelli universali.

E’ difficile parlare di Arrival perchè, come Louise di fronte agli alieni, lo spettatore è sopraffatto dall’emozione e mosso dal desiderio di conoscere e comunicare con ciò che appare sullo schermo. Una comunicazione fatta, in entrambi i casi, di linguaggio visivo, di segni densissimi. In Arrival anche noi tentiamo una decodifica, e lentamente riconosciamo il familiare: il monolito di Kubrick; le sue prospettive geometriche; la morte e la rinascita simboleggiata dal neonato. Ma anche lo Spielberg di Incontri ravvicinati è presente, una presenza sottesa ad ogni inquadratura: dall’astronave silente e sospesa nel paesaggio solitario del Montana; al brulicare di scienziati, tende, apparecchiature scientifiche e computer, il tutto in un improvvisato accampamento, come fedeli intorno ad una apparizione sacra; all’emergere dell’alieno dalla luce. E non manca la paranoia dei B-movies anni ’50 in quell’uccellino in gabbia che temiamo di veder morire sotto i nostri occhi, vittima di una “contaminazione”.

Arrival è saturo di cinema ma Villeneuve ne fa un film profondamente suo, e sembra quasi di sentire l’amore in ogni immagine, la cura con cui il regista corteggia l’abisso. L’arrivo di Louise in elicottero è quanto di più spettacolare, grandioso e emotivamente sconvolgente il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni: Villeneuve si avvicina all’astronave con una panoramica da brivido, fatta di ampi movimenti circolari, in un lento, misterioso abbraccio: eccolo, l’inconoscibile, l’ignoto in cui “muore” tutto ciò che sappiamo della vita. L’astronave, con la sua presenza oscura ed estranea, costringe ad un nuovo rapporto con le cose; ma anche ad abbandonare gli usuali strumenti del comunicare. E’ un film sulla potenza dell’immagine: sensibile, subliminale, polisemantica; più forte del tempo. Un’immagine che il contemporaneo sembra disinteressato nel decifrare, fermandosi all’immediatezza della superficie.

L’interpretazione della Adams è meravigliosa e condensa tutta la fragilità e l’elevazione di cui è capace l’essere umano. Louise viene scelta per la sua anima intatta, per una purezza che le apre le porte della percezione: in lei tutto è al contempo mutevole ed eterno, presente e passato. Villeneuve la immerge in una stanza bianca (compresenza di vita e morte) e lavora sul suo corpo in modo struggente, alleggerendola del peso degli anni, smaterializzandola, privandola della gravità.
Di fronte al cinema di Villeneuve, mosso dal desiderio di essere più della vita stessa, catturare l’invisibile con “l’arma” sciamanica delle immagini, non si può che sbalordire fino alle lacrime.

ANIMALI NOTTURNI di Tom Ford

animalinotturni***1/2
“Uno stilista che si è messo in testa di essere un autore”: non sono pochi i critici ad aver posto un tale snobistico distinguo, ma per fortuna il cinema è grande e se ne frega di queste discriminazioni. Quello di Tom Ford è il film di un outsider che spazza via la noia cronica del professionalismo per avvicinarsi al mistero dell’immagine con la freschezza e il coraggio dell’amante. Ed è proprio l’audacia a stupire, in Animali Notturni; superiore allo spirituale A Single Man, che esplorando una duplice morte (quella dell’oggetto amato, e quella parallela del protagonista, inghiottito dal nulla e dal dolore) ci aveva rivelato la predilezione di Ford per un cinema di “crisi”.

In Animali Notturni lo choc sconquassa sia la materia narrata che la forma: dopo i destabilizzanti titoli di testa, Ford ci introduce in una soap opera di linguaggio televisivo, con primissimi piani, personaggi dall’eleganza parossistica e atmosfere melò (di un’astrazione così grottesca da ricordare la soap inventata da Joy di David O.Russell). In questo contesto di finzioni sociali, che si sublimano nell’effimero sensazionalismo dell’arte contemporanea (“sono stanca dell’arte”, dice Susan/Amy Adams, lasciando affiorare i conflitti e le ipocrisie del vivere), Ford inietta la brutalità di un’altra finzione: quella letteraria/cinematografica, che però si fa più vera del vero e scuote Susan dalla sua passività spalancandole la ferita.

Dal gelo dello sceneggiato iniziale, veniamo gettati in un secondo film – sporco, violento, iperrealista – e per lo spettatore è infinito il piacere degli occhi che deriva da questo cinema di contrasti stilistici e livelli narrativi. Ford è indubbiamente un cinefilo e in questa deviazione “di genere” che infetta la vita patinata, cadaverica di Susan (non a caso compare un’opera di Hirsch) il regista trasferisce tutta la sua passione per il noir più brutale – Ulmer, Aldrich, i cani di paglia di Peckinpah, il rape and revenge settantesco. Attraverso un montaggio libero da convenzioni, talvolta azzardato, mosso da passione, Ford alterna, sovrappone, interrompe i due livelli, con una poesia di dissolvenze incrociate e rimandi iconografici. Ma non è tutto: dal momento che il cinema è anche memoria, Ford apre un terzo piano narrativo in cui prendono vita i ricordi di Susan. La vita che imita l’arte che imita la vita: attraverso Susan, Ford ci costringe a guardare tutti noi consumatori di cinema, ci mette di fronte al nostro voyeurismo e processo di identificazione.

Sembra complesso, ma in realtà Animali Notturni fa ciò che da sempre fa il cinema: apre ricordi, immaginazioni, derive del pensiero, in completa autonomia temporale. L’assenza di una coerenza stilistica o cronologica è la chiave del film di Ford, al cui interno confluiscono una pluralità di suggestioni, dalle contemporanee astrazioni di The Neon Demon di Refn, alle memorie dei B-movies più anarchici. Eccezionale il cast, fino ai coprotagonisti (il cattivo interpretato da Aaron Taylor-Johnson è memorabile e ruba la scena); ma è Amy Adams la musa malata di Ford, la femme che non può più essere fatale.

BIG EYES di Tim Burton

bigeyesIn una San Francisco alla “Vertigo”, Tim Burton ambienta il più hitchcockiano dei suoi film, tra cieli azzurri e paesaggi urbani iperrealisti. Big Eyes è un omaggio alla hollywood dei generi; un film dal decoupage classico, in cui le nevrosi, l’oppressione, la tristezza della condizione femminile esplodono all’interno di una metropoli con colori da candy shop. Amy Adams è meravigliosa: è tutto nei suoi occhi, nel modulare lievemente un dolore, nel trasalire d’angoscia. La sua Margaret Keane è una Marilyn Monroe muta e segreta, o una Jane Wyman immersa nella solitudine di quegli anni ’50 violenti e sessisti.