LA FORTEZZA NASCOSTA di Akira Kurosawa (1958)

La Fortezza Nascosta è un’esperienza epica e lunare, collocata in un limitare di difficile definizione: luogo dell’immaginazione? Spazio della Storia che riemerge dalle polveri per stendersi davanti ai nostri occhi nella sua natura astratta e aliena?
Kurosawa realizza uno dei suoi jidaigeki più personali, abdicando al realismo e stilizzando ambienti e personaggi. “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori” diventano figure di una moderna mitologia e si muovono tra deserti, rocce e nebbie, in uno stato di costante indefinitezza e privo di riferimenti.
Con una immagine inedita e disorientante, il film si apre sui contadini Matashichi e Tahei inquadrandoli di spalle. Ed è meraviglioso che Kurosawa affidi il suo racconto a due personaggi umili, del tutto privi di caratteri eroici o nobili tratti psicologici. Si tratta, piuttosto, di una coppia che richiama ad un passato di cinema slapstick per le numerose gag corporali cui danno vita: in loro si ritrovano tracce dell’ingenuità di Laurel e Hardy o della disarmante sprovvedutezza di Abbot e Costello; modelli di “buddy movie” americano, come del resto è americano quel sentimento di “frontiera” espresso dalle immagini desertiche, allungate in orizzontale per mezzo di un Tohoscope che pone i personaggi ai margini dell’inquadratura e lascia immaginare un infinito fuori campo.

Non stupisce che un film del genere – dagli esterni notturni e “extraterrestri”, dai personaggi inconsueti ed erranti, uniti dal caso e dalla necessità, abbia affascinato il giovane George Lucas, che da La fortezza nascosta ha ricavato il modello per Star Wars.
Quasi un western “fordiano” per l’infinitezza che lo pervade (data dai campi lunghissimi, dalle inquadrature dal basso – alla ricerca di una possibile elevazione – allo studio di luci e ombre, fino all’affermazione della “centralità” dell’essere umano) il film di Kurosawa si dipana tra sfide, cammini, prove estenuanti, battaglie e avventure dello spirito. I due contadini si imbattono in un generale e una principessa da salvare: nulla è come sembra, ciascuno indossa una maschera (la principessa veste abiti da guerriera, il generale si finge criminale); la “battaglia per l’oro” è in realtà una guerra tra “dimensioni” opposte – gli Yamana e gli Akizuki – affidata a singoli, improbabili eroi.
Kurosawa ci conduce di fronte al nemico, ci fa assistere a geometriche scene d’insieme – memori delle partiture musicali-visive di Ėjzenštejn – ci trascina su ripidi pendii per lasciarci scivolare in un fiume di rocce assieme a Matashichi e Tahei, goffi e impreparati come potremmo esserlo noi.

Gli occhi della principessa sono taglienti come sciabole, la sua presenza è divina, altera. Kurosawa reintepreta lo spazio in forme nuove e sfrutta il teleobiettivo per comporre inquadrature dove i volti in avampiano appaiono giganti, mentre i deboli sopravvivono quasi schiacciati sul fondo. L’essere umano è un estraneo sulla terra, ma lotta e sopravvive, talora lanciandosi in velocissimi inseguimenti a cavallo segmentati in un’azione tumultuosa, tra la vita e la morte. La Fortezza Nascosta è la trasfigurazione del jidaigeki in un racconto paradigmatico e universale, visivamente impregnato di futuro, che pone l’uomo a confronto con un “nulla” invisibile, in cui ritrovare le tracce della propria esperienza umana.

FOR THE RIGHT DAMAGED EYE (1968) di Matsumoto Toshio

Nell’ambito del Pesaro Film Fest 2024, all’interno della sezione dedicata al cinema sperimentale, è stato presentato il corto di Matsumoto Toshio For the damaged right eye (1968). Matsumoto, principalmente conosciuto per Funeral Parade of Roses (1969) – un film unico, che muove dalla classicità dell’ Edipo Re per frantumarla e reimmaginarla in schegge di onirismo, visioni sussultorie, orge psichedeliche – anticipa la sua visione nera e cosparsa di tragico humor nel suo cinema sperimentale. For the damaged right eye, realizzato un anno prima del lungometraggio, è un’opera sinestetica che si sviluppa su una molteplicità di piani di rappresentazione. Non solo il film si compone di due film proiettati in sincrono l’uno accanto all’altro, ma un terzo proiettore sovrappone il proprio fascio di luce alle immagini giustapposte, offrendo una sublimazione coloristica e diafana alla violenza convulsa che scorre davanti ai nostri occhi. A sua volta, la colonna sonora si presenta come ulteriore sollecitazione sia per i nostri sensi che per il pensiero, stabilendo la sua autonomia o creando un perturbante contrasto con le componenti visive.

Il lavoro di Matsumoto è tutt’altro che pretestuoso e si inserisce in una filosofia di cinema-rasoio, volto a ferire lo spettatore fino a lasciarlo sanguinante, colmandolo però anche di poesia. Immagini portatrici di malattia, stralci di documentario, di notiziari televisivi convivono con il gesto quotidiano; lotte studentesche sono affiancate a corpi nudi, il porno e la rivoluzione abbracciano lo stesso schermo, così come l’orrore di deformità, morte e distruzione. La guerra, volti bruciati, scorrono in un cut-up mentre il sonoro si offre rassicurante nella forma di commercial. La schizofrenia del vivere è rappresentata in modo fulgido da Matsumoto, che nella tragedia dell’esistenza continua a intravedere, come farà anche in Funeral Parade of Roses, la bellezza dell’amore, le tracce radianti della poesia, il dolore in forma pudica di lacrima. Tutto convive nel cinema di Matsumoto: tristezza e ferocia, innocenza e corruzione. Con For the damaged right eye, la sua irruenza di cineasta lo porta a tentare il cinema multisensoriale, consapevole che la brutalità di quegli anni (il film fu girato in pieno ’68) necessitasse di una rappresentazione radicale, in cui far confluire sensazioni, visioni, schizofrenie percettive, ribellione giovanile.
Regista di incommensurabile audacia, poeta e visionario, sperimentatore e avanguardista, Matsumoto creò tecniche e stili di cui troviamo tracce nelle forme audiovisive contemporanee, private però di quella sostanza etica che nei lavori del regista giapponese emergeva, lacerata, tra le fiamme della visione.

THE WOMAN IN THE RUMOR, Mizoguchi Kenji (1954)

Film del 1954 e ultimo film di Mizoguchi interpretato da Tanaka Kinuyo, che per il regista incarnò moltissimi personaggi differenti – geishe, contadine, mogli ridotte in povertà, amanti tradite, prostitute, madri – donando a ciascuna di loro un carattere intenso e unico, complesso e chiaroscurale. Mizoguchi spesso confinò le sue figure femminili in un astratto idealismo e martirio; ma Tanaka era un’artista troppo intelligente per non sfuggire a tale prigionia attraverso la ricchezza densa e profonda, talora misterica, delle proprie interpretazioni. Anche Hatsuko, la “mistress” di The Woman in the Rumor, è una donna dalla personalità sfumata. Coordinatrice inflessibile di un bordello di lusso – una tradizione di famiglia che rivendica con orgoglio – Hatsuko conosce però i tormenti e l’infelicità dell’amore, e nutre segretamente il sogno di una vita “rispettabile” e di un impossibile matrimonio con un dottore più giovane di lei. Nel bordello è ospite la figlia di Hatsuko, Yukiko: una ragazza dall’aspetto elegante e urbano, istruita e sensibile, ostile alla professione materna che però le ha consentito di portare a termine gli studi. Anche Yukiko è dunque un personaggio che vive di tensioni opposte e inconciliabili, divisa tra il privilegio della propria posizione ed il disprezzo per l’attività del bordello, che di quella posizione è il fondamento economico.

Mizoguchi, nel tratteggiare con grande finezza ogni aspetto delle due protagoniste – dai kimono variopinti e sensuali della sorridente Hatsuko ai completi scuri e rigorosi di una silenziosa e ombrosa Yukiko – ci pone davanti a due caratteri che mutano davanti ai nostri occhi, talora ponendosi in aperta opposizione, altre volte confondendosi fino a scambiarsi i ruoli. Entrambe innamorate del giovane ed opportunista dottore (un altro di quei personaggi maschili vili e mediocri che costellano la filmografia di Mizoguchi), madre e figlia troveranno nel sentimento la chiave per mettersi reciprocamente a nudo, scarnificarsi, fino a rivelare un nucleo di verità che le porterà a comprendersi e avvicinarsi. Le due donne diventano quindi parte di un’unica personalità femminile dalla natura multiforme: istintiva e materna, passionale e protettiva, cinica e innocente al tempo stesso. Questo confronto graduale, via via più intenso sino a diventare emotivamente sconvolgente tanto per i personaggi quanto per lo spettatore, prende vita in un contesto spaziale – quello dell’ampio e labirintico bordello – che Mizoguchi filma con una maestria a sua volta imperscrutabile e rarefatta. La sua macchina da presa si pone a distanza per registrare uno spazio profondo, attraversato ora da linee rette, ora da prospettive oblique. Gli elementi in scena sono numerosi e stratificati: in una singola inquadratura vive una complessità di gesti, storie, di figure umane in primo piano o sullo sfondo. Mizoguchi seziona l’immagine, la stringe grazie a porte, elementi architettonici o dell’arredo; le esistenze pulsano e scorrono dietro una tenda, in fondo a corridoi, ai margini o al centro dell’inquadratura. Le prostitute appaiono non solo come corpi di consumo, ma ciascuna di esse ha una sua specificità, un momento di gloria dato da un gesto significante, una riga di dialogo struggente o da brevi quanto vivide sottotrame.
I piani sequenza si muovono assecondando la pluralità di vicende umane, l’incrocio di destini: sullo schermo passa la Storia, quieta e dolorosa, fatta di ombre e pianti, mentre un cielo notturno particolarmente opaco (bellissima la fotografia di Miyagawa Kazuo, che predilige un buio grigio e privo di romaticismo) ne è testimone distante e immoto.

L’IMPICCAGIONE (Kōshikei, 1968) di Nagisa Ōshima

Nel 1968 Ōshima gira un film nerissimo in cui delinea, attraverso dialoghi taglienti e scelte grafiche nette, un’antropologia del popolo giapponese nel suo rapporto travagliato con la Corea; e allo stesso tempo esprime una viscerale dichiarazione contro la violenza di stato e la pena di morte. Prendendo spunto da “L’incidente di Komatsugawa”, celebre caso di cronaca del 1958 che vide un giovane coreano condannato a morte per l’uccisione di due studentesse, Ōshima realizza il film aderendo al progetto “film da 10 milioni di yen” (produzioni a basso costo con attori non professionisti). L’esiguità del budget diventa una una sfida artistica per il regista, che crea uno dei suoi film più radicalmente avanguardistici e politicamente incandescenti. Partendo da un incipit pseudo-documentario, in cui la natura della finzione viene subito esplicitata dalla voce fuori campo (“Voi che siete a favore della pena di morte, avete mai visto un’esecuzione? Avete mai visto la camera della morte?”), Ōshima mette in scena l’esecuzione di un giovane prigioniero coreano accusato di duplice omicidio; ma il ragazzo, identificato con la lettera “R”, si “rifiuta di morire” e piomba in uno stato d’amnesia. L’intero gruppo operativo adibito all’esecuzione – un funzionario, un cappellano, un medico e delle guardie carcerarie – si adopera con ogni mezzo (incluso l’omicidio) affiché il giovane recuperi la memoria, per poterlo impiccare nuovamente.

Ōshima ci conduce nel regno del grottesco e del paradosso senza mai scindere il gusto per la commedia crudele dall’oscenità morale che pervade gli ufficiali, creature prive di rimorso e votate al piacere della morte. L’aridità dei carnefici, la burattinesca stupidità di esecutori ligi alla legge – in ogni sua clausola più perversa – contrasta con l’immagine del condannato, benedetto dall’oblio, bianco e privo di espressione, defraudato della propria essenza da un Giappone che ne ha stroncato corpo e spirito. A R, illuminato da una luce bianca, si affianca la presenza della sorella, che appare come una visione e alla quale Ōshima affida il ruolo di una “Corea incarnata”, entità che attraverso il dialogo espone la propria sofferenza, il rancore, l’odio. R e la sorella, nudi e avvolti da una bandiera giapponese, sono stesi sul pavimento mentre gli ufficiali festeggiano la loro fine con giochi e canti infantili. La regia, stupefacente, ricorre a piani sequenza che esaltano l’azione quasi del tutto racchiusa in interni (a parte un intermezzo centrale) e affilata profondità di campo. Ōshima usa anche in modo purissimo il primo piano e l’esplorazione del corpo dei due coreani, di cui mette in risalto l’innocenza e il candore – la pelle diafana, la nudità di mani e piedi, la vulnerabilità della posizione orizzontale cui vengono costretti.

Martiri e immobili, lo sguardo perso in un orizzonte infinito, R e la ragazza si stringono in un amore che non può salvarli. Gli esecutori, intenti a scambiarsi parole mostruose (di gioia e orgoglio per le morti inflitte), li osservano con piacere entomologico. Un montaggio ellittico, l’inserimento di fotografie, la presenza della voce fuori campo e il fluviale dialogo meta-teatrale fanno de L’impiccagione una delle opere più impressionanti, incisive e formalmente innovative di Ōshima; un film che contiene suggestioni del surrealismo e di Buñuel, soffuso del potere del sogno e segnato dal labile confine tra finzione e realtà. Nel finale una luce accecante, quasi una malata divinità, si manifesta a R consegnandolo al suo destino; mentre i grigi carnefici si complimentano reciprocamente per il lavoro svolto, emblemi di un Giappone burocratico, disumano e alienato.

“Per favore, non guardate questo film come arte astratta… Voi spettatori dovreste guardarlo nello stesso modo in cui combattete, lavorate, amate, odiate. Guardando questo film dovreste sentirvi parte di un’azione” (Ōshima Nagisa).

100 ANNI DI TAKAMINE HIDEKO

27 marzo 1924 – 27 marzo 2024

Il 2024, ormai al crepuscolo, è un anno importante per il cinema giapponese: in tutto l’arcipelago sono in corso, da mesi, le celebrazioni per il centenario della nascita di Hideko Takamine, tra le interpreti più amate del Sol Levante.
Presenza magnetica, di straordinario talento, Hideko Takamine incarnò la bellezza dell’amore e il mistero dei fenomeni naturali. Guardarla sullo schermo significa non solo vivere un universo di sentimenti ed emozioni espressi con delicatezza spontanea e leggera, ma diventare parte di un’esistenza parallela, di mondi che prendono vita solo per la sua stupefacente presenza. Al suo passaggio, la finzione cessa d’essere mera finzione: le mille vite di Hideko Takamine sono nostre.
Antidiva e vera, scelse intenzionalmente di ritrarre donne comuni, sentimenti quotidiani e reali ma non per questo meno avvincenti o tempestosi. Nella sua lunga e ininterrotta carriera durata cinquant’anni lavorò con tutti i più grandi registi del Giappone ( tra cui Gosho Heinosuke, Toyoda Shirō, Kobayashi Masaki). Ozu Yasujirō la scelse come attrice bambina per Tokyo Chorus (1931), e successivamente le affidò il ruolo dell’irruente e anticonformista Mariko ne Le sorelle Munekata (1950), che la giovane Takamine interpretò con fremente vitalità e spirito da grande commediante. Ma furono Kinoshita Keisuke (con cui girò 12 film) e ancor di più Naruse Mikio (che la volle come protagonista in 17 film) a lasciarsi abbagliare dalla sua luce e metterla al centro dello schermo per incarnare “tutte le donne”: personaggi comuni – autiste di bus, insegnanti, ballerine, mogli, madri, amanti appassionate, giovani indipendenti alla ricerca di riscatto, figure idealiste colme di speranze e futuro o ferite violentemente dal destino.

Takamine fu in grado di calarsi naturalisticamente in ciascuna di loro, portando una intensa sensibilità e la verità di un sorriso pulito e autentico. La sua recitazione fresca, immediata, talora bollente, reca il mistero del vivere e un’ostinata irriducibilità che non arretra nemmeno di fronte alle onde travolgenti del destino. Tra i film girati con Naruse troviamo grandi capolavori come Lightning (1951), racconto di formazione di straordinaria modernità; Floating Clouds (1955), tragica vicenda amorosa che anticipa la Nouvelle Vague sia per sensibilità che struttura formale, opera ipnotica e immersa in un dolore esistenzialista, in cui Takamine appare luminosa come un sogno; When a woman ascends the stairs (1960) sulla difficile vita delle donne che lavorano nei bar dell’elegante e urbano distretto di Ginza.

Nel 1954, sul set di Twenty-four Eyes, si innamora di Zenzō Matsuyama, giovane sceneggiatore: il matrimonio tra la diva e l’anonimo scrittore suscita scalpore, ma i due restano insieme tutta la vita, formando un duo artistico indissolubile, fatto di corrispondenza di amorosi sensi e affinità artistiche elettive. Spiriti poetici e appassionati, moderni e irrequieti, realizzano film anticonformisti e lacerati da impeti progressisti e tensioni di futuro, come Happiness of us alone (1961) incentrato su una coppia di sordomuti, e Mother Country (1962) che ritrae la triste esistenza degli immigrati giapponesi alle Hawaii alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.
Takamine, nonostante le convenzioni dell’epoca, continuerà a lavorare anche dopo il matrimonio, dimostrando fortissima libertà e indipendenza a dispetto dei più veti tradizionalismi: “As a wife, as a woman”.
Fu anche attiva come scrittrice e saggista, pubblicando molti libri di successo sin dal suo periodo di massimo splendore come attrice. Inoltre fu pittrice e collezionista d’arte: alcuni dei suoi quadri sono esposti al Museo d’arte di Setagaya.

A seguire, alcune recensioni brevi dei suoi film più celebri, vere pietre miliari della storia del cinema giapponese (e non solo).

Alcune recensioni brevi

LE SORELLE MUNEKATA (1950), Ozu Yasujirō
Film di emozioni profonde, veicolate da due personaggi femminili: Mariko, giovanissima, vestita all’occidentale, indipendente, pronta ad irridere la tradizione; e sua sorella maggiore Setsuko, in kimono, aderente agli ideali del passato al punto da accettare un marito abusivo: ma in lei qualcosa freme, e si nota nei dettagli. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte per i sorrisi di tante protagoniste dei film di Ozu: così misteriosi, sorrisi che rispondono ad una cultura di gentilezza, ma che celano i misteri di una musa arcana. Setsuko sorride ma in lei avviene la rivoluzione, anche grazie alla vitalità di Mariko, la cui propensione alla commedia e all’equivoco ricorda l’incanto di una giovane Carole Lombard. Ed il finale è tra i più sottilmente enigmatici, inafferrabili: Setsuko sceglie la libertà, con un gesto intensamente moderno e antiromantico. E’ meraviglioso vedere un personaggio femminile affrancarsi dalle aspettative sociali e scegliere, nelle sue parole, “la propria strada” – soprattutto negli anni ’50.
E’ un film splendido, complesso, dalle sfumature noir, attraversato da momenti di angoscia insostenibile – come nei confronti tra Setsuko e il marito. L’atmosfera è intrisa di violenza anche se Ozu non mostra quasi nulla: ma noi temiamo per Setsuko. Quando il marito infila una mano in tasca crediamo stia per estrarre un’arma, un oggetto per colpire Setsuko. Ozu in pochi secondi gira una scena d’orrore nel nostro immaginario.

Le Sorelle Munekata

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke
Una spogliarellista dal cuore d’oro, dopo aver ottenuto un grande successo a Tokyo con i propri spettacoli, torna nel villaggio rurale natio assieme ad un’amica-collega. Qui dà scandalo improvvisando uno strip tease per gli abitanti del paese; il padre si imbarazza, il preside si indigna, i paesani, prevedibilmente, ne vanno pazzi. Tra Billy Wilder e Frank Tashlin, CARMEN TORNA A CASA è il primo film a colori del Giappone, girato da quel genio di Keisuke Kinoshita. La meravigliosa Hideko Takamine (“Carmen la Dolce”) danza in reggiseno tra colline, cieli azzurri e mucche che pascolano: una visione squisita e surreale, enfatizzata dai campi lunghi in cui brillano macchie di colore. Tra canzoni, scherzi, equivoci, le gonne delle ragazze scivolano giù, rivelando gambe fantastiche. Un film di straordinaria bizzarria e dolcezza.

Carmen Comes Home

INAZUMA (Lightning, 1952), Mikio Naruse
Si tratta di uno dei più bei film mai realizzati sulla vita di una donna ed è talmente “reale” da lasciar percepire allo spettatore il flusso di coscienza della protagonista. La ventitreenne Kiyoko si guadagna da vivere lavorando come guida su un bus turistico ed è la più giovane dei quattro figli che la madre ha avuto da quattro uomini diversi. Vittima della propria famiglia disfunzionale, che la vorrebbe sposata al volgare fornaio Tsunachiki, Kiyoko decide di andare a vivere da sola; ma non è facile liberarsi del tutto dalla dolorosa morsa dei legami familiari. I “lampi” del titolo sono i profondi turbamenti che scuotono la ragazza di fronte al disfacimento morale della famiglia: le sorelle diventano amanti del laido Tsunachiki, il fratello bighellona in perenne stato di ubriachezza, la madre si trincera nella rassegnazione. Film sensoriale, tattile, materico: le emozioni di Kiyoko diventano nostre senza filtri, se non quello invisibile della mano del regista, così delicata e rispettosa. Nei film di Naruse si vedono le donne pensare, vivere, cercare nuove possibilità: è un cinema vero, e fa impallidire tutti i proclami che vengono fatti al giorno d’oggi sul “cinema femminile”. Senza sensazionalismi, ma assorto, discreto, concentrato fino a cogliere ogni sfumatura, Naruse realizzava ritratti femminili d’una bellezza simile a quella dei film di Ophuls: e sarà forse un caso, ma a un certo punto Kiyoko scrive una lettera e si invaghisce di un pianista…

Inazuma (Lightning)

CARMEN FALLS IN LOVE (1952), Kinoshita Keisuke
Il film viene realizzato dal regista Kinoshita dopo “Carmen comes home” (1950), primo film a colori del Giappone, in cui Takamine Hideko danzava svestita tra verdi colline, mucche al pascolo e contadini stupefatti. Il regista torna al bianco e nero in questo sequel tutt’altro che realista: girato quasi completamente con “dutch angles”, ovvero inquadrature inclinate (tipiche dell’espressionismo), il film è una satira pungente e a tratti spaventosa, priva della dolcezza del suo antecedente. Carmen, attrice di varietà ispirati a Bizet, viene maltrattata sia fisicamente che psicologicamente; la povertà incattivisce la società, le classi sociali sono rigorosamente divise (si veda la casa della ricca e viziata famiglia Sudō) e soprattutto aleggia ancora la presenza della bomba atomica: oggetto di numerose battute di dialogo, temuta, evocata, protagonista di incubi e ossessioni. Kinoshita ama la sua pura, ingenua Carmen, schernita da tutti per la sua candida semplicità, soprattutto dal velleitario artista di cui si innamora. La nostra eroina canta “per non pensare alla sofferenza”, mentre intorno si agita un mondo che comprende narcisisti patologici, nostalgici del riarmo, violenti. Kinoshita allestisce scenografie surrealiste assai francesi, scrive rapidissimi e allusivi dialoghi screwball e infonde un profondo senso di disagio con una colonna sonora che alla musica sostituisce il rumore delle bombe. L’opera di un genio assoluto.

Carmen Falls in Love

THE GARDEN OF WOMEN (1954) Kinoshita Keisuke
Questo è, in un certo senso, il film “horror” di Kinoshita Keisuke. Nel raccontare la durissima vita quotidiana delle studentesse in un college di Kyoto, il regista mette in risalto l’assoluta mancanza di gioia, libertà spirituale e amore cui vengono costrette le ragazze, ancora sottoposte a una spietata disciplina patriarcale. Tra loro, l’idealista e fragile Yoshie (Takamine Hideko) insegue l’amore (con un ragazzo vietatole dal padre) e confida in un futuro di realizzazione personale; ma la famiglia e l’istituzione scolastica la schiacciano senza pietà. In ogni immagine brucia l’angoscia, mentre il regista illumina la bellezza delle giovani e un cupo bianco e nero ci mostra le loro ali spezzate. Un racconto di crudele realismo, saturo di tristezza e morte, che ispirò Oshima Nagisa a diventare regista a sua volta.

The Garden of Women

TWENTY-FOUR EYES (1954), KINOSHITA KEISUKE
Le ragazze in bicicletta del cinema giapponese cercano l’indipendenza, sono autonome e proiettate verso il futuro, anche se la società fa di tutto per reprimere il loro slancio. Takamine Hideko in Twenty-four eyes (Ventiquattro occhi, 1954, Kinoshita Keisuke) è l’idealista, appassionata insegnante Hisako. La giovane sfreccia lungo le strade di un’isola remota, suscitando lo stupore degli abitanti e l’ammirazione dei suoi giovanissimi studenti: è la rappresentazione di una libertà giovane, leggera, su cui ancora non pesa l’amarezza dell’esperienza e la perdita delle illusioni.

Twenty-four eyes

A WIFE’S HEART (1956), Naruse Mikio
Takamine – Mifune, un temporale d’amore. Il cinema di Naruse ha sempre fatto dei fenomeni naturali una metafora dei tumulti del cuore e della forza devastante del desiderio. In a Wife’s heart (1956), proprio a causa di una pioggia inaspettata, l’infelicemente sposata Kiyoko e l’impiegato di banca Kenkichi trovano riparo in un ristorante. Qui la conversazione scivola inavvertitamente dalla norma: si fa colloquio intimo, parola sorridente, avvicinamento. L’emozione cresce e straripa. Kinkichi pronuncia il suo nome: “…Kiyoko-san!”, come se quel suono racchiudesse la confessione d’un sentimento. Kiyoko trasalisce, spalanca gli occhi, lo ferma con lo sguardo. L’aria è elettrica, ma in pochi secondi i due si ricompongono. Naruse si allontana dai loro visi, rinuncia al primo piano, esattamente come Kiyoko e Kenkichi, nell’imbarazzo, hanno appena rinunciato alla parola. Pesa, su di loro, la materia del non-detto, greve come la pioggia.

A Wife’s Heart

UNTAMED WOMAN (1957), Naruse Mikio
Film anomalo e straordinario nella sua costruzione di un personaggio femminile “non soccombente”. L’umiliata e offesa Shima (Takamine) si rialza cento volte, impara a tener testa a uomini deboli e indegni (dando vita a impagabili scene comiche, come quando innaffia con l’idrante il marito traditore). In una sequenza molto bella, tutta incentrata sulla disillusione, Shima viene baciata dal fascinoso proprietario dell’albergo dove lavora (Mori Masayuki, sempre perfetto nel ruolo di vigliacco), e un grosso mucchio di neve cade dal tetto con un tonfo sordo. Naruse sta dicendo agli spettatori – e alla protagonista – che non si tratta di un bacio romantico, e che quel mucchio di neve caduto a peso morto è il preludio ad una serie di viltà inflitte dall’uomo alla ragazza. Dopo un’esistenza di ingiustizie e privazioni, Shima imparerà a usare la bicicletta e creerà una propria attività, diventando un emblema di quel coraggio femminile che spesso troviamo nel cinema di Naruse: quelle celebri figure femminili che “sembra stiano per soccombere, ma poi non lo fanno”

Untamed Woman

QUANDO UNA DONNA SALE LE SCALE (1960), Naruse Mikio
Il film di Naruse e L’APPARTAMENTO (Billy Wilder) sono entrambi del 1960 e ci dipingono la stessa tipologia maschile: l’uomo “distinto e affascinante”, apparentemente passionale, in realtà vile seduttore. Nel celebre film di Wilder, Mr. Sheldrake (Fred MacMurray) lascia alla povera Kubelik, sua amante, una banconota con cui comprarsi un regalo di Natale e se ne va dichiarando di non poter divorziare dalla moglie. Nel film di Naruse, l’elegante Mr.Fujisaki (Mori Masayuki) seduce Keiko (Takamine Hideko) e passa la notte con lei (quasi costringendola), per poi abbandonarla il mattino seguente, lasciandole azioni di poco valore come risarcimento. Come Sheldrake, Fujisaki ammette di non avere il fegato di rompere con la moglie e usa il “pagamento” come forma di chiusura di un rapporto indecoroso per la propria posizione. Anche nella rappresentazione ci sono similarità: in entrambi i film li vediamo seduti al bar/ristorante, in raffinati completi scuri, assorti in conversazioni eleganti e urbane.

Quando una donna sale le scale

IMMORTAL LOVE (1961), Kinoshita Keisuke
(Satako (Takamine) e Heibei (Nakadai) si detestano da 30 anni. Il regista Kinoshita attraversa la storia collettiva a partire dall’interno di un mortifero rapporto matrimoniale, dove per circa tre decenni le dinamiche sentimentali restano le stesse: il titolo “Immortal Love” (riferito a un terzo personaggio, vero amore di Satako) potrebbe essere benissimo rovesciato in “Immortal Hate”. Nonostante la trama da feuilleton, le “scene da un matrimonio” interpretate da Nakadai Tatsuya e Takamine Hideko sono stupende, taglienti, un gioco di continua crudeltà in cui i due personaggi cercano costantemente di superarsi. Una coppia elettrica che si “uccide” fino ad addolcirsi nella parte finale. Negli ultimi minuti Kinoshita si diverte a mostrarci Satako e Heibei ormai “addomesticati” e pone tra loro la presenza ingombrante di un moderno frigorifero, quasi un terzo personaggio nella scena.

Immortal Love

AS A WIFE, AS A WOMAN (1961), Naruse Mikio
Due donne: una moglie (Awashima Chikago), un’amante (Takamine Hideko), si contendono lo stesso uomo da più di dieci anni (Mori Masayuki nel suo ruolo più sgradevole). “As a Wife, as a woman”, è una presa diretta sui costumi e la società dell’epoca. Se la presenza di un’amante era comunemente accettata, al punto da essere ufficiosamente regolata da codici di comportamento che definivano il suo ruolo in rapporto alla famiglia dell’uomo, non di rado il protrarsi negli anni della relazione aveva conseguenze drammatiche. Naruse studia le vite parallele della moglie e dell’amante, accomunate da un destino di infelicità, sopportazione, creazione di maschere sociali, con in più l’umiliazione di un accordo economico. Il regista è straordinariamente bravo nell’interlacciare due esistenze nel breve spazio della durata del film. Percepiamo il peso degli anni, la fatica, l’involontaria “convivenza”, la paura reciproca. Due esistenze-ombra. Il montaggio è particolarmente ellittico: Naruse sperimenta più del solito con tagli e giunzioni, compie un editing “emotivo” concentrando anni in passaggi di pochi secondi. Come spesso accade, il regista è interessato al sentire, al tempo interiore, alla percezione soggettiva delle sue protagoniste. In una scena che lascia senza fiato, Ayako, la moglie, vede i bambini piccoli uscire dalla stanza. Un taglio impercettibile, e dalla stessa porta rientrano i due ragazzi ormai grandi. Sono passati anni, ma lei, di spalle, sembra non essersi mossa: immobile nelle abitudini e nello spazio circoscritto degli obblighi sociali. È il 1961, e ancora la vita delle donne è completamente subordinata ad inerti ed egoiste figure maschili. Naruse è particolarmente critico nei confronti dei suoi personaggi: gli adulti ci appaiono deludenti e privi di luce interiore, insoddisfatti per conformismo e viltà. La rinascita ideale è affidata al sorriso dei due ragazzi, che gettandosi alle spalle il melodramma familiare cercano l’indipendenza e vanno a sognare al cinema.

As a Wife, as a Woman

Link ad alcuni miei articoli:

CARMEN COMES HOME (1951), Kinoshita Keisuke

FLOATING CLOUDS (1955), Naruse Mikio

HAPPINESS OF US ALONE (1961) e MOTHER COUNTRY (1962), Zenzō Matsuyama

YEARNING (1964), Naruse Mikio

HIT AND RUN (1966), Naruse Mikio

Naruse Mikio, La Tempesta del Vivere

Lightning (Inazuma, 1952), Naruse Mikio

THE PORNOGRAPHERS (Introduzione all’antropologia) di Imamura Shōhei, 1966

Appunti su THE PORNOGRAPHERS ( Jinruigaku nyūmon, Introduzione all’antropologia, 1966). Il primo film che Imamura realizza da indipendente, senza avere alle spalle la Nikkatsu, porta alle estreme conseguenze la sua visione del Giappone post bellico – corrotto, smarrito, privo di etica e sedotto dal capitalismo di matrice statunitense – e intensifica lo sperimentalismo linguistico.
The Pornographers mette in scena le vicende di Subu, uno sgangherato produttore di film pornografici nei bassifondi di Osaka. L’uomo vive con una vedova, Haru, e i suoi due figli: il viziato Koichi e la quindicenne Keiko, nei confronti della quale prova una morbosa attrazione. Assistiamo a situazioni e contesti di estremo degrado spirituale e morale (incesto, pedofilia, prostituzione, sfruttamento) che Imamura rappresenta attraverso soluzioni formali di grande rigore e originalità. Più va in scena l’indicibile, più Imamura formalizza con un’arte grafica astratta, chiudendo il caos tra le sezioni verticali/orizzontali di palazzi, le pareti di una camera, le cornici di un effetto mascherino prodotto dal profilmico (travi, porte, grate alle finestre).
Lo stile accoglie il deragliamento della società giapponese e lo imprigiona in astrazioni geometriche per intensificare il distacco dell’osservatore rispetto alla materia osservata. Solo la distanza può infatti permettere a Imamura un’analisi tanto capillare e distillata, capace di addentrarsi nelle dinamiche più intime e perverse di una famiglia che è una grottesca metamorfosi della famiglia tradizionale. Questa “alterazione dell’armonia” è resa da Imamura attraverso l’uso di particolari prospettive e profondità di campo, indicative delle dinamiche tra i personaggi: i volti in avampiano ci appaiono enormi, i corpi sullo sfondo sono rimpiccioliti, creature di scarto. Non c’è equilibrio nei consorzi umani, dominati da sopraffazione, istinti, avidità.

Imamura tavolta registra con occhio glaciale, altre volte ci coglie di sorpresa, lasciando che le emozioni facciano irruzione con l’intensità di una lama: l’apparizione di una lacrima che taglia a metà l’inquadratura; un camera car all’indietro che parte dal primissimo piano di un volto per poi allontanarsi, lasciandolo solo nella vastità della sua follia; e ancora espressioni contorte nella disperazione o mella schizofrenia, in preda a dolori, impulsi, bizzarre superstizioni. Come in Unagi (1997), un pesce (in questo caso una carpa, che Haru crede sia lo spirito del defunto marito) osserva la degenerazione dell’umanità, testimone impotente e osservatore magico, cui forse è dato comprendere ciò che l’umano non sa più discernere.
Inquadrature dall’alto, attraverso la trasparenza dell’acqua, o sghembe, crepe nel visibile, ci svelano una società giapponese che ha perso il senso del tabù, del sacro, persino il rispetto dell’innocenza e della malattia mentale. Imamura lascia colare il suo humor nero rendendo il film un’esperienza tanto sgradevole quanto voyeuristica e pulsionale: spinti a nostra volta da una curiosità privi di scrupoli, vogliamo sapere quanto ancora il limite del rappresentabile possa spingersi oltre. Ombre di Kinugasa, di Mizoguchi e di Ozu sembrano presenti come fantasmi in un mondo degenerato.

BLACK RAIN di Imamura Shōhei

Appunti su BLACK RAIN (1989) di Imamura Shōhei. Film del 1989, ma così accurato nella ricostruzione storica e nella cura filologica dell’immagine – dal particolare e denso bianco e nero, alla disposizione degli oggetti del profilmico, all’attenzione antropologica (volti, corpi) da sembrare girato tra i ’40 e i ’50.

Il film documenta l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e gli anni successivi attraverso lo sguardo di una famiglia di sopravvissuti: la giovane Yasuko, lo zio Shigematsu e sua moglie Shigeko. L’esperienza è sconvolgente, e il turbamento diventa ancor più intenso perché preceduto da scene di vita quotidiana, montate in successione con asciuttezza, senza alcuna nota di pathos: alcune donne sono intente in una cerimonia; lavoratori si accalcano in un treno; un cane attraversa veloce la strada. Tutto è quiete e silenzio, finché una stanza viene illuminata da un bianco irreale e accecante. È allora che l’esplosione diventa anche suono e le cose precipitano nell’orrore. I corpi prendono fuoco, si liquefanno, si polverizzano. La pelle scivola via dalle ossa, i cadaveri sono irrigiditi come statue nere, gli arti contorti. Madri piangono bambini morti in braccio; i sopravvissuti vagano urlando. Imamura filma tutto con occhio documentario, senza la minima sbavatura emotiva: ma proprio per questo le immagini sono uno shock senza fine. Bellissimo il volto di Yasuko, la giovane protagonista: pioggia nera cade sul suo volto facendo di lei una madonna sofferente. Ad accrescere la visione di molte scene spirituali e oniriche contribuisce la colonna sonora inquientante e dissonante di Takemitsu Tōru, fatta di archi vibranti e discese profondissime nelle emozioni umane.

Il film testimonia la vita immediatamente successiva: il tentativo di ritorno a una impossibile normalità, la stigmatizzazione subìta, il male che riemerge come tumore e follia. La stupenda regia di Imamura fa di questo film un intenso omaggio alla classicità, quella stessa classicità da lui combattuta in giovinezza: ci sono le inquadrature con camera bassa, il rigore della composizione degli interni, ma soprattutto i caratteri dei protagonisti a ricordarci il cinema di Ozu: Yasuko, abbigliata e pettinata come Hara Setsuko, non vuole sposarsi né allontanarsi dai suoi zii; Shigematsu ha un carattere stoico e quieto come tanti personaggi interpretati da Ryū Chishū. È come se, nonostante tutto, un sentimento per il cinema classico si facesse strada in Imamura: le spighe mosse dolcemente dal vento, i piani sequenza e i lenti carrelli di Mizoguchi; ma anche i campi lunghissimi e la vita contadina di Naruse (Summer Clouds) e le sue passeggiate nel bosco; fino alla poesia di Kinoshita e alla sua nostalgia per un passato perduto.

Imamura orchestra l’epica quotidiana alternando scene d’orrore e momenti intimi, quieti, d’illusione: la narrazione si intesse di flashback a ricordarci che passato e presente coesistono, e quel “bagliore” maligno è materia quotidiana, presenza viva e letale nella mente e nel corpo dei protagonisti. Yasuko lentamente si spegne: il corpo si macchia di tumori, i capelli cadono. Non c’è enfasi, ma si esce dalla visione provati, con la sensazione di aver avuto accesso a una visione d’inferno in cui i semplici si piegano al martirio, e di aver attraversato un paesaggio alla William Blake in cui “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.

VOICES IN THE WIND di Nobuhiro Suwa

Presentato alla Berlinale del 2021, Voices in the wind (2020) è un’opera di grande bellezza e che certamente meritava una distribuzione italiana. Diretto da Nobuhiro Suwa, il film (in originale “Il telefono del vento”) segue il peregrinare di Haru, adolescente sopravvissuta allo tsunami del 2011 e sofferente per la perdita della sua famiglia: madre, padre e fratellino. Senza più riferimenti né affetti, Haru inizia un viaggio accidentale attraverso il Giappone: guidata non da volontà, ma da un senso di abbandono che la precipita lungo le strade o in compagnia di sconosciuti. Priva di un soffio vitale, anche lei “già morta”, presenza fantasmatica e segnata in viso dal dolore, Haru è una Madonna dal volto rigato dalle lacrime. L’interpretazione di Motola Serena è sconvolgente: la sua Haru esprime una sofferenza spirituale e mistica, che la distacca dalle cose del mondo. Il corpo cade, c’è quasi un’impossibilità di stare in posizione verticale: come scriveva Sylvia Plath, la ragazza cerca naturalmente il cedimento orizzontale, il contatto con il suolo, la terra, una conversazione finale coi fiori.

Il regista Suwa muove la macchina da presa in grande libertà: tra strade e paesaggi naturali, tra chioschi e bar dove Haru viene sospinta per inerzia dallo scorrere delle cose. Volti, incontri: chi si cura di lei, chi cerca di violarla. Suwa ama l’improvvisazione e filma dialoghi interrotti, cerca l’emozione che si annida nella parola e la spezza. Talvolta, in interni, blocca Haru nel carcere del suo dolore, inquadrandola come cosa tra le cose, imprigionata tra le geometrie di una parete, marginalmente come una presenza invisibile. Ma più spesso segue il suo girovagare documentando, macchina a mano, la condizione di erranza della ragazza, il suo essere corpo estraneo in una terra che assomiglia a un limbo. La condizione umana è quella del desiderio mancato, di una tensione struggente che possa cancellare la sofferenza: raggiungere i propri cari, superare la separazione dall’amore, toccare la morte per abbattere il confine tra le dimensioni. Dopo aver conosciuto altri sopravvissuti, dormito su treni e sedili di auto, Haru giunge al “telefono del vento”, situato a Ōtsuchi, nella regione di Tōhoku: lì, ogni anno, migliaia di persone vanno a cercare una conversazione con chi non c’è più, per sentire la voce che gli è cara. Nel soffiare del vento, chi può dire che non siano proprio i morti a sussurrare parole di conforto?

IL MALE NON ESISTE di Hamaguchi Ryūsuke

Parlando del suo film Ponyo sulla scogliera (2009), Miyazaki dichiarò in un’intervista che in natura “il male non esiste”. Da sempre proteso verso una nuova armonia tra uomo e ambiente, il grande animatore giapponese sottolineava l’esistenza di cicli naturali da assecondare e rispettare. Forse, anche per Hamaguchi la natura intesa come entità è priva di “male” e dotata di una sensibilità altra.

Il regista di Drive my car si allontana dai suoi caratteristici quadri urbani per inoltrarsi nel mistero delle cose naturali: una scelta nata grazie alla collaborazione con la compositrice Eiko Ishibashi, che vive in una zona rurale. Dalle differenti esperienze dei due artisti, Il male non esiste prende vita come progetto comune, riflessione sul contrasto tra l’artificialità della metropoli – con i suoi interni asettici e climatizzati, i ritmi innaturali e la progressiva “povertà” sensoriale – e la vita rurale scandita dal freddo, da delicati equilibri e dalla presenza di creature silenziose (alberi, animali). Nello script vengono trascritti episodi vissuti in prima persona dal regista (come quello dell’assemblea) e affiora, in crescendo, un grumo di violenza.

“Felice… chi comprende senza sforzo/ il linguaggio dei fiori e delle cose mute”, scrisse Baudelaire nella celebre poesia Elevazione, del 1857. In realtà nel film di Hamaguchi non esiste una “felicità” per chi abita nella natura, ma la tensione a un’armonia, una quotidiana operosità all’interno di una natura-cosmo dai tratti alieni e dai propri codici. Uno degli elementi più affascinanti del film è senz’altro il carattere animistico e inquieto del paesaggio naturale, che ci appare di per sé un “corpo” che respira, sibila, e talora pare emettere un sinistro movimento musicale di disappunto nei confronti della presenza umana.
Il piccolo nucleo familiare composto da Takumi e sua figlia Hana – segnati dall’assenza della figura materna e affettivamente trattenuti, afasici – ogni giorno è impegnato in un “viaggio conoscitivo” tra rami invernali, coltri di ghiaccio e specchi lacustri circolari e silenziosi. La luce e il gelo del paesaggio lo rendono parte di quell’universo astratto e sconosciuto che ci ospita. Il bellissimo incipit del film crea qualcosa di raro – una perfetta corrispondenza tra immagine e suono, tanto che sembra di assistere a un’inquietante sinfonia prodotta dalla foresta stessa. Hamaguchi lavora per confondere lo spettatore, mosso dall’intenzione di intensificare le sue capacità percettive ed emozionali: per molti aspetti il film ha carattere iniziatico.

Il piano sequenza iniziale, così come altri movimenti misteriosi – il camera car lungo il sentiero, o altre immagini di cui ci viene rivelato il carattere “soggettivo”, servono a sovvertire il nostro senso comune e ad aprirci all’esperienza della natura. Pervasi dal bianco della neve, dal cristallo dei ghiacci e dall’intrico dei rami (che sembra quasi comporre un linguaggio grafico, un alfabeto) procediamo lungo il film con un senso di stordimento, talora inebriante, altre volte colmo d’angoscia.

La natura di Hamaguchi, profondamente espressiva e dotata di una presenza arcana, ha molto in comune con la foresta minacciosa di Charisma (1999) di Kurosawa Kiyoshi: anche in quel caso ci trovavamo di fronte a un mondo naturale “inaccessibile” agli inesperti, eppure di grande e rovinoso magnetismo. Nel film di Hamaguchi, come in quello di Kurosawa, lo spazio ambientale lascia emergere scontri, caratteri: la sensazione è quella di un mondo dalla purezza intangibile e severa, eppure estremamente fragile e turbato dalla presenza umana. Mentre sullo schermo appare volto di un cervo, o scorre il reticolato dei rami contro il cielo, ci chiediamo: chi davvero guarda, chi viene guardato? Il male non esiste ci dà la sensazione di essere giudicati dagli alberi, osservati da un universo cui l’essere umano non riesce ad aderire se non portando un cumulo pulsionale irrisolto.

LA MUSICA DI GION – GION BAYASHI (1953) di Kenji Mizoguchi

Gion Bayashi (La musica di Gion, 1953) di Mizoguchi Kenji è un film bellissimo e complesso, che in soli 85 minuti posa il suo sguardo sulla tradizione delle geishe e sulla loro vita, dall’apprendistato alla maturità, nel quadro del Giappone del dopoguerra. La sensibile e raffinata regia di Mizoguchi cala la realtà di queste ragazze in un contesto impalpabile di bellezza e cultura tradizionale, tra canti, danze, ampi interni adornati da tendaggi trasparenti e preziosi; ma allo stesso tempo rivela subito la brutalità del mestiere, che prepara le giovani con la massima severità solamente per farne preziosi trastulli destinati al consumo maschile.

Ancora una volta, come spesso accade nel cinema giapponese, le donne vengono ritratte in tutta la loro profondità e fierezza: Miyoei e Miyoharu (le stupende Wakao Ayako e Kogure Michiyo) sono due protagoniste combattive, duramente messe alla prova dall’esistenza, ma colme di dignità.
In particolare, il personaggio di Wakao Ayako contiene il germe dell’inquietudine e l’anelito alla libertà propri di tutta la gioventù del dopoguerra. Se l’adesione di Miyoei all’apprendistato è condotta con totale rigore, il rifiuto di ridurre il proprio ruolo a semplice prostituzione è altrettanto fermo. Assalita da un cliente che vuole possederla, Miyoei lo combatte fino a mordergli le labbra; e l’immagine che segue la collutazione – con Miyoei bellissima e sconvolta, i capelli ornati dai fiori e la bocca sanguinante – contiene tutta la natura “ossimorica” della vita della geisha, educata alla raffinatezza e costretta a subire gli impulsi maschili più turpi.
Altrettanto bello, ma meno “ferino” del ruolo di Wakao (che per tutta la sua carriera incarnerà la duplice natura femminile, innocenza e selvatichezza), il personaggio di Kogure: una geisha più esperta e amareggiata, segnata dalla malinconia e con un istinto materno che la porta a proteggere il destino della giovane Miyoei. “La parte più nera di questo mestiere mi ha avviluppata”, dice Miyoharu, consapevole della propria “caduta”.

Mizoguchi filma con grande delicatezza, inquadrando le figure umane dietro la trasparenza di una tenda o incorniciate in interni-prigione in cui si consuma un destino segnato: la scrittura filmica del regista è invisibile, eppure segue, accompagna, scruta o ci allarma con grida fuori campo. Secondo alcuni critici si tratta di una regia impassibile e anti-sentimentale: ma a mio parere i volti delle due interpreti, ripresi da una “distanza”, recano un dolore profondo che lo spettatore vive per tutto il film. Tra le due donne c’è una profondissima solidarietà, un amore che le lega in un silenzioso patto di reciproca protezione e comprensione; mentre il mondo maschile è rappresentato egoista e ottuso, incline alla ricerca immediata del piacere e cosumato dall’avidità.