
Ozu Yasujirō
[Appunti sparsi in occasione del compleanno di Ozu: 12 dicembre 1903 – 12 dicembre 1963]
Scrive un utente in un commento su YouTube: “I film di Ozu mi fanno desiderare di essere più gentile con gli altri”. È vero. È il primo effetto che fanno. Ogni suo film è testimonianza del suo amore per la vita e per gli esseri umani: guardarli per la prima volta significa scoprire un universo vibrante di puro coinvolgimento sensoriale e spirituale.
È un cinema attuale: lo spettatore si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte a un oggetto filmico da studiare per il suo valore storico o culturale; la visione non ci pone a confronto con polverosi reperti, ma con oggetti vivi e perfettamente aderenti alla contemporaneità, proprio perché focalizzati sugli effetti del vivere.
Questi “effetti del vivere” affiorano nei tre contesti d’elezione del cinema di Ozu, che sono, in realtà, i tre nuclei basilari della società giapponese: la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. È all’interno di queste cellule che Ozu riesce a isolare “tutto ciò che è essenziale della vita umana”, come disse Aki Kaurismaki. La circostanza contingente, la storia raccontata, vengono trascese in un più ampio reticolo di percezioni e sensibilità, in cui ciascuno di noi può riconoscersi.






Grazie all’uso tutto personale che Ozu fa della macchina da presa, dei propri attori, così come degli spazi e degli oggetti, del colore (o assenza di esso), percepiamo le emozioni dei personaggi; ne cogliamo lo stato d’animo in fieri, i sussulti interiori, con tutta la risonanza che hanno dentro di noi. Questa comprensione tra spettatore e personaggio è ancora più miracolosa se si pensa che il punto di vista del racconto non è mai soggettivo.
Gli esseri umani vengono osservati senza invadenza (ne è prova il fatto che Ozu opti per il più pudico “mezzo primo piano” rispetto al primo piano). La macchina da presa si avvicina o si allontana scegliendo sempre la giusta distanza dalla quale ascoltare il suono dei pensieri. Talvolta l’osservazione è condotta in campo lungo, di cui Ozu scopre la forza drammatica; altre volte il personaggio è guardato da vicino, ma di spalle: non è detto, ci fa capire Ozu, che il viso sia sempre rivelatore. Un corpo incurvato può parlarci di un peso, di un’angoscia che una inquadratura frontale non sa esprimere.


Frequenti, nel cinema di Ozu, le immagini dedicate alle “donne che pensano”: figure femminili di grande forza intima e segreta, il cui corpo e sguardo sono completamente assorti nell’atto del pensare. L’osservazione di Ozu non è mai piatta o didascalica, ma conserva intatti l’enigma dei pensieri e il mistero della sensibilità; quello che accade nella mente delle sue protagoniste resta talora opaco e impenetrabile, ma la sofferenza espressa dall’inquadratura è tangibile e raggiunge i sensi dello spettatore. Nel cinema di Ozu gli esseri umani sono parte di un tutto: elementi tra gli altri, cose tra le cose; presenze tra oggetti inanimati o piccoli animali domestici. Spesso ricorrono, ad esempio, immagini di uccellini in gabbia: i protagonisti dei suoi film sono non di rado come queste piccole creature, bloccati in uno spazio e costretti dalla società, o dalla famiglia, a reprimere il desiderio di volo.






“La vita non è una delusione?” Chiede Kyoko, la sorella minore, a Noriko in Viaggio a Tokyo. “Sì, una vera delusione”, risponde sorridendo Noriko. I (mezzi) primi piani che Ozu dedica alle due attrici in questa scena sono pieni di grazia e di luce. Il regista coglie qualcosa di unico, un sentimento indefinibile e sospeso tra la dolcezza del sorriso della Hara e la semplice evidenza della sua risposta. In fondo ci chiediamo: può essere davvero così triste la vita, se esiste un sorriso del genere? Le sfumature sprigionate dalla scena sono come una lieve ebbrezza. Ozu trascende la semplicità del momento quotidiano per consegnarci intatta la luce dei sentimenti umani e il mistero di un tempo interiore, un presente che pare stendersi sull’intera esistenza.


La malinconia del vivere è presente in ogni inquadratura: il lavoro di ogni essere umano è accettare la propria transitorietà e i mutamenti della vita, all’interno di quel “tutto” che compone l’universo.
Ed è significativo che sentimenti ed emozioni non ci siano offerti in una lettura chiara. Quando osserviamo i suoi personaggi, mentre piegano il capo o guardano intensamente verso di noi, c’è sempre il senso d’una vaghezza, di uno stato d’animo incerto e quindi dai contorni indefiniti. Allo stesso tempo, Ozu lascia ai suoi spettatori un indizio, un elemento che possa informarci: il modo in cui il personaggio porta alla bocca una tazza di tè, o si tormenta i guanti, o cammina (spesso vediamo solo i piedi); persino il modo in cui un fiammifero viene strofinato diventa significante: è un gesto deciso? O il fiammifero viene strofinato una, due volte, rivelando turbamento o emozione? E’ attraverso questi segnali che i protagonisti entrano in noi, e condividono con noi ciò che provano.
Ogni visione (nuova o ripetuta) dei suoi film ci permette l’accesso in un mondo la cui bellezza, il paesaggio esteriore/interiore, l’amore – per i personaggi e tra i personaggi – diventano un vissuto stupefacente. Quei tipici “sguardi in macchina” voluti da Ozu per “far entrare” lo spettatore nello spazio di un dialogo, rappresentano momenti di intimità talmente intensi da risultare indimenticabili: quando mai un personaggio ci ha guardato così? Com’è possibile che Ozu instauri una conversazione proprio con noi, in forme così personali e profonde? Queste domande sorgono continuamente di fronte ai suoi film, e siamo grati della sua presenza, di un discorso pieno di cura nei nostri confronti. I suoi film sono vivi e ci parlano ancora.
