FUOCOAMMARE di Gianfranco Rosi

fuocoammareFuocoammare ha il grande pregio di far pensare. Alla vita e al cinema. Dalla sua uscita, i critici non hanno smesso di interrogarsi sulla “liceità” del suo modo di “trattare” il reale. Siamo sempre di fronte alla domanda originaria: che cosa è il cinema? Ed è inutile pensare di offrire una risposta definitiva. Con Fuocoammare, esattamente come accadeva con Sacro Gra, Rosi intraprende un viaggio non alla scoperta del reale, ma un viaggio innegabilmente interpretativo. Le cose non emergono ma vengono inequivocabilmente alterate – ovvero trasformate in altro: e questo altro è il discorso del regista. Il regista offre uno spaccato impressionista di Lampedusa, microcosmo paradigmatico cui sottende la sua personale visione (che a tratti si trasforma in clichè folkloristico). L’isola come origine, terra innocente di cui i bambini simboleggiano l’essere umano in fieri: il piccolo Samuele, istintivo e selvatico, mostra già le sue pulsioni crudeli nei confronti delle cose viventi – i cactus, gli uccelli – eppure vive anche il suo percorso di crescita, attraverso la scuola e l’educazione familiare.
Rosi mostra, attraverso i capitoli di vita quotidiana sull’isola, allestiti in forma di parabola, Lampedusa come civiltà separata ed immersa nell’atemporalità, sulla cui esistenza pietrificata irrompe la catastrofe umana. Ed è una catastrofe che obbliga all’azione e al movimento: ecco allora che l’isola appare spaccata in due nell’anima – da un lato, parte della popolazione continua a vivere nella separatezza, aliena alle tragedie a lei contigue (sono tragedie ascoltate alla radio, quindi lontane, quasi appartenenti ad un’altra dimensione); dall’altro, i centri di raccolta diventano i luoghi del dolore sconosciuto, della separazione ma anche della salvezza; luoghi in cui esplode l’urgenza del presente fatta di soccorsi, fughe, malattia, ferite, sradicamento, speranze, in un mare di sofferenza senza nome.

Ed è qui che Rosi compone immagini indelebili – e di composizione si tratta – sovrapponendo volti ad altri volti, scavando nelle nostre coscienze con gli occhi di un’umanità addolorata che ci obbliga a non distogliere lo sguardo. Giovani in lacrime, corpi devastati, bambini, donne, esseri umani spogliati di tutto, fotografati due volte – dagli ufficiali, e dall’obbiettivo del regista. Immagini cui Rosi vuole imprimere un’evidenza – che ottiene col colore e lo studio dell’inquadratura. Tecnicamente dotatissimo, Rosi non documenta mai, ma chiaramente impone un trattamento autoriale alla materia filmata. E questa materia è la sofferenza dell’uomo. Rosi dimostra di avere una visione da portare alla luce e lo fa con ogni mezzo, combinando l’esigenza di verità con una (discutibile) tensione all’allegoria che caratterizza la sua personale interpretazione. Allo spettatore, almeno così è accaduto nel mio caso, resta il difficile compito di separare: l’immagine dal peso simbolico che gli viene attribuito, la singola sequenza dal racconto morale in cui si trova inserita. Trovo che Rosi abbia raccolto una materia che possiede una forza sacrale, che difficilmente si sradicherà dalle coscienze: ma il disegno in cui una simile materia viene inserita mi spinge a pormi dubbi etici ed estetici, primo tra tutti il disagio di constatare la riduzione di un simile materiale a componente (per quanto bruciante) di una struttura debole.

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